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Paul Auster e il dominio della scrittura e del testo

03 maggio 2024

Paul Auster e il dominio della scrittura e del testo

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«I libri sono fatti di libri» aveva detto Cormac McCarthy in un’intervista al New York Times Magazine, e questa (ovvia) constatazione era per lui un’amara verità (ugly fact), il rammarico che la letteratura non potesse attingere mai direttamente alla fonte del reale. Paul Auster, il campione della narrativa americana morto a 77 anni lo scorso 30 aprile a New York, avrebbe potuto pronunciare la stessa frase ma con intento completamente diverso. Per Auster, la posta nel gioco della letteratura era da conquistare interamente nel campo della letterarietà o – per meglio dire – nel dominio generale della scrittura e del testo.

Questa era l’immagine di sé che aveva offerto ai lettori, dopo un decennio di attività poetica, con la sua prima opera di grande successo: la Trilogia di New York, i cui capitoli (Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa) furono pubblicati tra il 1985 e l’87. Già prima, però, si era fatto notare con il saggio bicefalo L’invenzione della solitudine, in parte memoir e in parte manifesto della produzione a venire. Anche il corno autobiografico di quel libro (stimolato dalla morte improvvisa del padre) apparteneva però all’universo della letterarietà poiché insisteva sul tema dell’identità come narrazione, come racconto che tenta di tenere insieme le contraddizioni senza mai riuscirci. Auster avrebbe poi detto che – dopo aver pensato in gioventù al romanzo come a una macchina dalla precisione inscalfibile, tutta decisa in anticipo, nella mente, come il disegno di un ingranaggio – con L’invenzione della solitudine aveva imparato ad apprezzare ciò che si trova per strada mentre si scrive, o mentre si vive (come la morte di un genitore), senza che sia preventivato: al modello del progetto si era sostituito quello della ricerca – e qual è la ricerca per eccellenza se non la detection? Così aveva costruito la trilogia come un paesaggio (giocato sui toni, più che sui timbri) in cui solitari detective privati si trovano a compiere indagini su antagonisti sfuggenti che potrebbero essere un loro doppio, se non addirittura un’immagine di loro stessi riflessa in uno specchio frantumato: sono personaggi che hanno lo stesso nome dell’autore, o che richiamano opere della tradizione americana (come il Fanshawe di La stanza chiusa, che rimanda al titolo di un romanzo giovanile di Nathaniel Hawthorne).

Le fonti della trilogia erano, da un lato, Beckett (e anche il primo Pynchon, quello dell’Incanto del Lotto 49), dall’altro le detective stories e il cinema della paranoia degli anni Settanta (i film di Alan J. Pakula, ma ancora di più La conversazione di Francis Ford Coppola). Il risultato, per quanto dalla superficie fredda e sofisticata, lo fece diventare un modello planetario per la scrittura, quasi un brand, all’inizio degli anni Novanta. Da quell’ombra che aveva proiettato oltre sé, Auster tentò in parte di fuggire, dedicandosi al cinema come sceneggiatore e regista in coppia con Wayne Wang per l’incantevole dittico di vita newyorchese Smoke e Blue in the Face (1995), e poi in autonomia con Lulu on the Bridge (1998), con cui però si riconnetteva in modo più diretto alle storie e alle atmosfere della Trilogia.

«Il caso e la sua musica, il soggetto e la sua crisi, la città come labirinto di oggetti e prospettive»: così, con abile sintesi, Luca Briasco ha schizzato il profilo generale dell’opera di Auster. Se questi però sono i suoi confini «interni», c’è comunque un al di là di quel mondo che ha avuto ricadute notevoli nell’ambito dell’industria del libro, della sua vita di prodotto. L’anima postmodernista (e decostruzionista) di Auster può avere sentito il peso degli anni ed essere invecchiata male, ma le opere di quella prima fase hanno anticipato tre tendenze che oggi sono dominanti nel mercato editoriale, e ancora lontane dal tramontare: il ricorso all’autobiografia, l’attenzione per i generi popolari (come il giallo) e il dialogo con il cinema, inteso sia come fonte d’ispirazione sia come punto d’arrivo del romanzo, che almeno un poco è già concepito e scritto in vista del suo adattamento. Non bisogna per questo concludere che Auster fosse uno scrittore «furbo», o in cattiva fede: semplicemente, aveva un grande intuito, e grazie a esso era riuscito a posizionarsi in maniera salda nelle menti – forse più che nei cuori – dei lettori e dei redattori culturali, pur senza essersi mai aggiudicato nessuno dei grandi premi americani (il Pulitzer, il National Book Award o il PEN).

Alla tradizione, Auster guardava con amore e forse anche con spirito di sfida: nel 1994 aveva pubblicato Mr Vertigo, avventura di un orfano cresciuto da un enigmatico maestro che lo educa all’arte della levitazione, un romanzo che guardava in parte a Mark Twain e in parte alla narrativa ebraica (a quel mondo Auster apparteneva di buon diritto, per via delle origini familiari); Mr Vertigo è un libro per certi versi unico nella produzione di Auster, e forse il sintomo di un’inquietudine, del desiderio di uscire dal brand e di collocarsi, una volta per tutte, nel solco del Grande Romanzo Americano. La critica, anche quella italiana, si è divisa sul risultato (per Sandro Veronesi è la prova migliore di Auster, per Francesco Rognoni una scommessa persa, si veda la sua recensione in Di libro in libro, Vita & Pensiero 2006). Era però, anche questa, la tappa di un percorso mai interrotto, cominciato con il riferimento a Hawthorne di cui si è detto e approdato nel 2021 alla monumentale biografia dell’enfant prodige della letteratura americana Stephen Crane, Ragazzo in fiamme.

Sarebbe stata la perfetta conclusione di una parabola, però nel caso di Auster la realtà extratestuale avrebbe finito per chiedere un conto molto salato. Prima l’overdose letale di Daniel (il figlio avuto dalla prima moglie, la scrittrice Lydia Davis), già processato per la morte della figlioletta neonata, e poi la scoperta della malattia. Eventi cupi, la cui onda ha lambito le pagine di Baumgartner, la sua ultima novella (apparsa nel 2023 da Einaudi, l’editore italiano di tutti i suoi libri), dove tuttavia il dolore balugina dietro la cortina delle parole solo in forma di ironia amara e di malinconia.  

Un articolo di

Francesco Baucia

Dottorando Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere - Università Cattolica

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