Quattro incontri, da luglio a ottobre, ognuno in un diverso rifugio di montagna, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza dei fenomeni migratori, in particolare l’asilo e la protezione. L’Università Cattolica del Sacro Cuore ha organizzato, insieme agli avvocati e giuristi di ASGI, “Rifugiati in rifugio”. Abbiamo partecipato al primo evento, il 5 luglio, per capire se il titolo dell’iniziativa – che ha già riscosso successo – sia solo un indovinato gioco di parole o riveli qualcosa di più profondo.
Pensieri in salita
Tornante dopo tornante, percorriamo in auto la strada asfaltata per il Passo Crocedomini. Dietro di noi, le nuvole sempre più nere non promettono nulla di buono. Ed effettivamente, quando arriviamo al parcheggio e consultiamo il meteo-radar, troviamo conferma ai nostri timori: da ovest sta arrivando un forte temporale su tutto l’arco alpino. Ci guardiamo perplessi, mentre alla malga Bazena arrivano anche le altre persone con cui ci eravamo dati appuntamento. All’improvviso, un fragore simile a una sassaiola. Guardiamo fuori dalle finestre: le rade goccioline che ci avevano accolto un’ora fa sono diventate scrosci violenti. Insomma, non c’è più alcun dubbio: piove.
Nel frattempo, anche gli ultimi escursionisti del gruppo ci hanno raggiunto. Un lampo squarcia le nubi, seguito dal rombo di un tuono: le previsioni erano corrette. Che si fa? È prudente mettersi in cammino, a 1800 metri di quota, con questo tempo? Si chiama il rifugio dove siamo attesi. L’annuncio sui giornali e le radio locali, il tam-tam sui social, il passaparola: tutto ha funzionato. Chi ha potuto è partito presto la mattina ed è già arrivato: ci aspettano. Intanto il peggio è ormai passato. Non sarà un po’ d’acqua a spegnere l’entusiasmo. Si tirano fuori dagli zaini le cerate e si parte.
Il gruppo imbocca il sentiero n. 1 che, secondo le indicazioni, in due ore e 50 minuti conduce 500 metri più in alto, al rifugio “Tita Secchi”, luogo dell’incontro. Si cammina in fila lungo una carrareccia larga ma ripida, ora un po’ sdrucciolevole per il diluvio che non accenna ad arrestarsi.
Perché venire in montagna per parlare di rifugiati?
Alpinisti e profughi sembrano appartenere a due mondi diversi. Ma, man mano che saliamo, appaiono sempre più evidenti le analogie. La prima ha a che vedere proprio con l’incertezza. Chiunque si metta in viaggio in altura sperimenta questo sentimento, che è solo una minima parte di quello che prova chi lascia il proprio Paese. Partire non è quasi mai la scelta più prudente – come non lo è stato per noi venire fin quassù proprio oggi. Ma a volte, per chi è perseguitato, restare lo è ancora meno.
Poi c’è il gesto stesso del camminare. A piedi si muovono per giorni le persone che migrano, spesso in condizioni enormemente peggiori di quelle toccate a noi.
Dopo una prima sella, si prosegue in costa svoltando a sinistra. La pioggia diminuisce, poi smette del tutto. Una brezza spazza il cielo dalle nubi. Sulle pendici, mazzi di genziane asciugano i petali al sole e al vento. Ancora un piccolo strappo e si arriva al Passo delle Terre Fredde. Poi si scende leggermente per proseguire su un falsopiano. Ora possiamo riprendere fiato e spaziare con lo sguardo sulle pareti del gruppo dell’Adamello. Durante la Prima guerra mondiale, sotto queste cime, si scontrarono l’esercito del Regno d’Italia e quello dell’Impero austro-ungarico. Ed ecco un altro punto di contatto.
Le montagne segnano i confini, delimitano il termine di una valle e l’inizio di un’altra. Spesso sono anche il punto in cui una lingua smette di essere intesa e un’altra prende il suo posto. Forse proprio per questo, sulle montagne i popoli hanno costruito le frontiere, che nella storia hanno spesso difeso con le armi. E proprio i confini, divenuti frontiere, si aprono o – più spesso – si chiudono per profughi e migranti.
Giunti al Passo della Vacca, un cartello segnala di proseguire a destra. Un’altra rampa: si risale sul versante opposto e, finalmente, a una svolta, il rifugio. Al di sopra dell’edificio, ci ripaga della fatica la vista del massiccio del Blumone, con le sue rocce ancora umide, sfavillanti alla luce tersa del pomeriggio, contro lo sfondo azzurro del cielo ormai sgombro.
Il rifugio è la risposta definitiva alla domanda posta all’inizio del nostro cammino. La parola “rifugio” evoca l’idea del riparo, quindi della protezione, che è ciò a cui aspira ogni “rifugiato”, come rivela l’etimologia del termine. Dove vuoi parlare di rifugiati, se non in un rifugio?
In fin dei conti, forse non c’è niente come percorrere un sentiero di montagna, mettere un passo dopo l’altro, per riconoscersi tutti un po’ profughi e pellegrini nel nostro transito terrestre. E forse non c’è nulla come esporsi agli elementi per capire quanto sia prezioso e vitale trovare un riparo, e quanto possa essere tragico, per chi si mette in viaggio con la speranza di trovarlo, vederselo rifiutare.
Migranti e soccorritori
Non c’è come camminare in montagna per comprendere meglio, ad esempio, la storia di Abdessamad Bellamkaddem, primo ospite dell’incontro. Da Agadir, in Marocco, Abdessamad – oggi 31enne, magazziniere in un’azienda del Bresciano – ha tentato per la prima volta di arrivare in Europa nel 2018, via mare. Respinto dalle autorità spagnole alle Canarie, ci ha riprovato l’anno dopo, passando via terra dalla Turchia. Lungo la Rotta Balcanica, in piena epidemia di Covid, ha subito i respingimenti a catena delle autorità di frontiera dei Paesi attraversati, pratica condannata da vari organismi internazionali come violazione del diritto d’asilo. Soprattutto, ha subito violenze e soprusi. Infine, giunto a Trieste, nascosto sotto il cassone di un camion e con una gamba rotta, ha ottenuto dalle autorità italiane un permesso di soggiorno per curarsi.