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Libera interpretazione di chiari poteri: storia del successo della Presidenza della Repubblica

14 gennaio 2022

Libera interpretazione di chiari poteri: storia del successo della Presidenza della Repubblica

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In vista dell’elezione del Presidente della Repubblica prende il via oggi il nostro “Speciale Quirinale”, una serie di testi, interviste, podcast e approfondimenti per seguire, grazie al contributo dei docenti dell’Università Cattolica, le votazioni che porteranno alla scelta della massima carica dello Stato. Il primo autore è Agostino Giovagnoli, professore di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e filosofia.


La Presidenza della Repubblica è un’istituzione di successo. Non è poco in un paese come l’Italia, dove le istituzioni non godono in genere di buona fama e dove il loro rapporto con i cittadini è sempre problematico. Questo successo appare con forza oggi, dopo il settennato di Sergio Mattarella, che ha interpretato tale ruolo in un modo molto alto, a dispetto degli ostacoli, delle accuse e persino delle minacce di impeachment. Ma non sono solo le virtù e i meriti personali di Mattarella ad apparire evidenti oggi, bensì anche il modo ammirevole in cui ha interpretato la sua funzione, rendendola capace di rispondere a esigenze vitali del sistema politico-istituzionale italiano. E, più in generale, dell’intera società italiana.

Indubbiamente, l’attuale Capo dello Stato ha esercitato ruolo, poteri e prerogative che gli sono stati trasmessi dai suoi predecessori, trasmettendoli a sua volta integri al suo successore, per usare le parole del suo discorso del 31 dicembre scorso. La funzione del Capo dello Stato è stata infatti plasmata, oltre che dai costituenti, anche da coloro che l’hanno di volta in volta esercitata, contribuendo a darle quella fisionomia storica che le è oggi propria. Si tratta di una fisionomia che i costituenti hanno tracciato in modo volutamente aperto, nel senso che hanno indicato chiaramente i limiti dei poteri del Capo dello Stato senza però fissare in modo rigido ciò che poteva/doveva fare all’interno di tali limiti. Sono stati i diversi presidenti della Repubblica a riempire questo spazio, spesso trasformando proprio i limiti loro imposti in opportunità e cioè interpretando il carattere non politico del loro ruolo in uno strumento per aiutare la politica a superare i problemi che non era in grado di risolvere.

Si è spesso sottolineato che i poteri del Presidente della Repubblica sono poteri a fisarmonica che si allargano o si restringono in base alla capacità del sistema dei partiti di funzionare a pieno regime o meno. È un’immagine che fotografa bene la storia della cosiddetta prima Repubblica, il periodo cioè in cui l’Italia è stata una “democrazia dei partiti”: Einaudi ha interpretato la sua presidenza in modo “notarile” finché, dopo le elezioni del 1953 e la bocciatura di De Gasperi, ha “inventato” il governo Pella; le ambizioni espresse da Gronchi con il governo Tambroni sono state invece contenute dai partiti; Segni ha varato il primo “governo balneare” di Leone perché il centro-sinistra non riusciva a nascere, mentre nel luglio 1964 il suo interventismo è stato fermata dall’iniziativa politica di Moro e Nenni. Ma le cose sono cambiate con la crisi dei partiti politici di massa tipici del Novecento e, ancor più, dopo la loro scomparsa con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica. La crisi della politica che ha accompagnato questo passaggio ha infatti esaltato ancora di più il ruolo del Presidente della Repubblica, che - da Scalfaro a Ciampi, da Napolitano a Mattarella - è stato chiamato a svolgere una funzione ancora più cruciale.

Questa dilatazione, però, non è andata nella direzione del presidenzialismo o del semi-presidenzialismo più o meno “di fatto”. Paradossalmente, l’importanza della figura del Capo dello Stato è strettamene legata al carattere marcatamente parlamentare della Repubblica italiana. E in questo senso molto eloquente l’esempio di Mattarella, che ha “salvato” due volte il Parlamento dal suo scioglimento anticipato, mostrando la forza dell’asse che unisce Presidente della Repubblica e le Camere ed entrambi al popolo italiano. È l’elezione del primo da parte delle seconde a fondare tale asse, attraverso passaggi che appaiono spesso imprevedibili e incontrollabili e che obbligano le forze politiche a fare i conti con la libertà dei parlamentari i quali, come dice l’art. 67 della Costituzione, non rappresentano i singoli partiti ma la Nazione nel suo complesso. Tali elezioni hanno inoltre progressivamente messo a fuoco una regola non scritta ma sempre più rispettata: la scelta deve cadere su una figura autorevole ma non su un leader con grande peso politico (per questo Fanfani e Moro, Andreotti e Forlani non sono mai stati eletti a questa carica, cui sono stati preferiti  Leone, Pertini, Cossiga). Queste e altre “regole” non scritte permettono che, qualunque maggioranza lo elegga, il designato possa “spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno”, per usare ancora le parole di Mattarella.

Tutto ciò favorisce il compito di rappresentare l’unità nazionale che proprio Mattarella ha interpretato al meglio. La simpatia e i consensi che si è attirato non sono casuali, rispondono a un bisogno che è diventato sempre più acuto man mano che la politica è diventata sempre più divisiva. Polarizzazioni, contrapposizioni, linguaggio d’odio sono tendenze sempre più diffuse nella società contemporanea, non solo in Italia, che mettono a rischio la democrazia, come ha mostrato in modo emblematico negli Stati Uniti l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. C’è infatti un non detto della democrazia assolutamente necessario alla sua esistenza: i cittadini che si dividono, anche aspramente, sul terreno politico, devono contemporaneamente riconoscersi in valori e istituzioni comuni, devono cioè sentirsi parte di una comunità che li unisce. Ecco perché la politica ha sempre più bisogno di un aiuto non politico: proprio quello che ha saputo dare Mattarella unendo tutti, al di là di divisioni e contrapposizioni, come hanno riconosciuto persino alcuni dei suoi maggiori oppositori.  

Un articolo di

Agostino Giovagnoli

Agostino Giovagnoli

Professore di Storia contemporanea - Facoltà di Lettere e filosofia, Università Cattolica

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