La sua aria pacata e i suoi modi gentili e asciutti si inteneriscono mentre ripensa a quella “fuga” fuori porta, nel piccolo eden della principesca villa donata dalla duchessa Clelia Sforza d’Aragona alla Santa Sede e poi da papa Pio XI all’Università Cattolica per farne sede universitaria per le religiose. Castelnuovo in quei giorni difficili fu utilizzata come rifugio per gli studenti prossimi alla laurea, come ci racconta: «La sera si chiacchierava in giardino. Furono giorni belli pur nell’atmosfera cupa della guerra». E aggiunge con un sorriso birichino: «Ricordo che feci arrabbiare Lazzati perché in una discussione feci intendere che consideravo minori e trascurabili alcuni autori della letteratura cristiana antica. D’improvviso si impossessò della scena come in un palcoscenico spiegando nel dettaglio perché ero in errore! Continuai a non essere d’accordo ma era un piacere ascoltarlo. Erano tutti professori appassionati. Sono stava davvero fortunata».
Ogni professore è impresso nella memoria, ritratto con pennellate di stima e ammirazione. «Aristide Calderini, per esempio, era geniale; credo ci avrebbe portati tutti in Grecia se avesse potuto. Feci la tesi con lui, si intitolava Il Senato Romano in Tacito; bastava mettergli un testo antico davanti e gli brillavano gli occhi, poteva parlarne per ore. Ricordo poi Mario Apollonio, che mi firmava l’autorizzazione per accedere ai libri dell’Index librorum prohibitorum in biblioteca. Le sue lezioni erano seguitissime, con una platea di signore eleganti che venivano in università non da studentesse ma da uditrici; per questo c’era sempre un’aria chic ed elegante nei suoi corsi».
Olgiati, uno zio affettuoso e discreto
Nella carrellata di ricordi uno spazio speciale occupa però lo zio, monsignor Olgiati, autore di numerosi volumi noti in tutto il mondo (a lui e a Tolkien C.S. Lewis dedicò un libro nel 1947), cuore della redazione della rivista Vita e Pensiero, fondatore dell’editrice e dell’Università, compagno fedele di padre Gemelli fin dalle origini del progetto culturale. Il ricordo che condivide con noi è però intimo e inedito, perché non riguarda il suo profilo pubblico.
Ed è il primo che conserva dello zio: «Da bambina, mi si presentò dicendo “gnao!” Per me da allora fu sempre zio Gnao. Amava i gatti anche se non ne ha mai tenuti in casa, se non in varie riproduzioni artistiche, ritratti, statuette, gliene regalavamo molti». In effetti Gnao era lo pseudonimo con il quale firmava gli scritti per i più piccoli, così come don Micio. «Era uno zio affettuoso», continua, «e molto discreto. Aveva una figura signorile, lo sguardo limpido e penetrante, un’intelligenza acutissima e costruttiva».
Continua a leggere su Presenza 5-6/2021, pagine 10-11