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Vittime di mafia, ricucire il dolore

23 maggio 2025

Vittime di mafia, ricucire il dolore

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«Ho conosciuto Libera per la mia vicenda personale. La morte di papà è avvenuta il 31 marzo del 1995. In quello stesso mese di marzo, mentre la vita della mia famiglia cambiava per sempre, nasceva Libera, la rete associativa pensata a ridosso delle grandi stragi siciliane e che, fra i primi passi, raccolse le famiglie delle vittime. Il primo giorno di primavera del 1996, un anno dopo, fui contattata da Libera e partecipai alla Giornata della Memoria e dell'Impegno per le vittime di mafia. Letti su un piccolo palco, sentii i nomi di chi era stato ucciso dalla mafia. C’era anche quello di papà. In quel momento è come se si fosse aperto uno spiraglio di speranza».

Parla Daniela Marcone, vicepresidente di Libera. Il 31 marzo del ’95 suo padre fu assassinato dalla mafia, a Foggia, nell’androne della sua abitazione. Racconta nei dettagli il momento in cui, tornando a casa, lo trovò riverso a terra con attorno la polizia. Poi dice. «Nessuno ti insegna a reagire a quei momenti».

Nell’ambito degli appuntamenti di Avvenire in campus, intervistata dalla giornalista Viviana Daloiso, Marcone è stata ospite dell’incontro dal titolo “Mafia e vittime di mafia. La giustizia che ricuce”, tenutosi al Collegio Sant’Isidoro del campus piacentino dell’Università Cattolica.

«Nessuno ci chiamò, capimmo di essere rimasti soli» afferma, sottolineando come in tanti le consigliarono di lasciare perdere la ricerca della verità, ma anche come la coscienza civile sia nata sempre più forte in lei. «Con mio papà, lì nella bara - racconta - ho detto: io chi l’ha ucciso lo perdono. Non so come mi siano uscite quelle parole, volevo che la morte di papà avesse una risposta, che ci fosse un’azione di giustizia da chi amministra la giustizia. Ho probabilmente sentito che la rabbia non poteva trasformarsi in odio».

Giustizia. Dolore. Ricucire. Verità. Attorno a queste parole ruota l’incontro nel collegio Sant’Isidoro. «Siamo abituati alla cultura della giustizia tradizionale, che passa attraverso i processi e l'attività dei tribunali. È una giustizia per lo più remunerativa, che è importante ci sia e che fornisca alla vittima una verità processuale. Negli anni ci si è però resi conto che per la vittima non c’è accoglienza né ascolto: abbiamo allora cominciato a studiare le teorie della giustizia riparativa, che arrivavano anche dall’estero, dalla Colombia ad esempio e dall’Argentina, con i suoi desaparecidos». «Occorre una risposta che giunga dalla comunità, che riconosca il dolore delle vittime, si deve lavorare insieme per costruire una cultura della giustizia che abbia la capacità di riparare».

Spesso, fa notare Marcone, la verità non emerge. «La giustizia tradizionale si deve focalizzare sul diritto alla verità, che in Italia non è scritto. Lì dove manca una verità processuale è difficile ricucire lo strappo che ogni omicidio e strage ha generato nella famiglia della vittima. E questo si può fare attraverso una cultura della giustizia che parta dall’ascolto della vittima e, quando possibile, di chi ha sbagliato. Quest'ultimo dovrebbe essere disposto a contribuire a svelare la verità».

I pilastri su cui si regge Libera, che quest’anno compie trent’anni, dice Marcone, sono impegno e memoria. «Anche quando non ci sono notizie eclatanti, in assenza di bombe e di stragi, bisogna continuare a lavorare per affrontare le mafie. Oggi non aggrediscono in maniera vistosa, benché nella mia terra, nel Foggiano, ma anche in Campania, le criminalità organizzate continuino a uccidere. Nelle altre zone si organizzano e riorganizzano penetrando nei gangli vitali della nostra economia e continuando a fare del male».

Un articolo di

Filippo Lezoli

Filippo Lezoli

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