Dopo avere irriso i nostri tentativi di separare il bene dal male, in questo grumo di carne insensata che è l’essere umano, Stevenson si commuove perché l’essere umano, nonostante tutto, è attraversato da questo pensiero quasi folle: il senso del dovere, il pensiero di dovere qualcosa a se stesso, al suo prossimo, a Dio. Questo prezioso compagno dell’essere umano, il senso della parola data, è sempre frustrato; ma non c’è niente da ridere e non c’è niente da irridere. Perché è questa postura impossibile che fa la grandezza dell’essere umano: le parole non sono all’altezza della vita, ma guai se non provassimo a trovare nella vita un senso con le nostre parole. Alla faccia di chi ci suggerisce che dovremmo rinunciare, la risposta non è la resa, la risposta è la letteratura, che fa della vita uno spazio in cui quel senso del dovere qualcosa a sé stessi, al prossimo e a Dio diventa poesia e non teoria.
Resta la domanda di fondo: come fa questo ragionamento di Stevenson, il cui contenuto è così drammatico, a darci gioia, una gioia genuina, vera, quasi da bambino e così accessibile? Credo che anche la risposta a questa domanda debba essere posta nella letteratura, ma faccio ugualmente un tentativo, proponendovi due immagini da portare a casa, due immagini che a me danno una gioia simile a quella che ho provato leggendo Stevenson.
La prima è una leggenda moderna, una leggenda vera. Si dice che all’inizio della Grande Guerra, che insanguinerà l’Europa solo vent’anni dopo la morte di Stevenson, durante il primo Natale, i soldati dei fronti opposti abbiano sospeso la lotta, siano usciti dalle loro trincee e abbiano condiviso momenti di festa, di canti e di gioco, scartato regali, scambi. Non è una leggenda, perché abbiamo le carte che raccontano le prese di posizione degli alti gradi dell’esercito, che furono costretti a intervenire condannando quelle tregue come alto tradimento. Ecco una de-coincidenza di cui si può forse gioire: il cuore dell’essere umano chiede la tregua, la chieda a gran voce, la chiede profondamente, contro ogni aspettativa. Forse anche nelle guerre di oggi lo sforzo immenso della propaganda, che vuole evitare che la vita trabocchi, che esca dalle trincee e si metta a cantare, ci dice che gli esseri umani non sono affatto per natura lupi l’uno per l’altro: sarebbero angeli. La macchina della propaganda è spaventosa, ma denuncia la fragilità del sistema.
La seconda figura è più antica, ma sempre cara al cristianesimo. Ottocento anni fa moriva un uomo che aveva fatto della povertà, della privazione, il cuore di una gioia contagiosa. Un uomo rigoroso che, però, non ha fatto del rigore un motivo per avvelenare i suoi giorni, ma il luogo della perfetta letizia. Un rigore ironico, una gravità leggera. Francesco d’Assisi era profondo, libero e lieto. E non ha mai voluto fare di Sorella Povertà una teoria decostruttiva, perché aveva interpretato il suo compito come quello di chi deve riparare la Chiesa, non demolirla.
Ecco, in queste due immagini, la prima così alla portata di tutti, la seconda incarnata in una vita inimitabile ma allo stesso tempo profondamente umana, io ritrovo la stessa gioia che risplende nel cuore di chi ascolta oggi le pagine di Stevenson. E, pur nella notte, mi scappa un sorriso.
Buon Natale.