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Il decreto sicurezza tra nuove esigenze sociali e rispetto dei principi costituzionali

11 giugno 2025

Il decreto sicurezza tra nuove esigenze sociali e rispetto dei principi costituzionali

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Le normative sulla sicurezza sono state in questi giorni oggetto di un ampio dibattito pubblico tra le forze politiche di maggioranza e opposizione e di coloro che operano nel campo della giustizia. La creazione di nuove fattispecie di reato e l’inasprimento delle pene favoriscono la prevenzione dal commetterne? L’aumento della carcerazione è nel solco dell’art. 27 della Costituzione che sancisce il principio della rieducazione del condannato? Le strutture penitenziarie sono in grado di supportare l’aumento dei condannati a pene detentive? Alla base di questa normativa c’è il venire incontro ad una richiesta di sicurezza da parte dei cittadini o si nasconde una deriva autoritaria da parte del Governo?

Sono stati tanti gli interrogativi e le relative risposte, con commenti e considerazioni, che mercoledì 4 giugno in Sala Negri da Oleggio hanno impegnato docenti, ricercatori e dottorandi di area penalistica dell’Università Cattolica, stimolati dalle relazioni di qualificati relatori, con la presenza del preside della Facoltà di Giurisprudenza Stefano Solimano, nell’esaminare il decreto-legge “Sicurezza” n. 48/2025, convertito in legge dal Senato proprio in contemporanea con tale incontro.

Il quadro sul dibattito in essere è stato offerto dall’intervento introduttivo di Luciano Eusebi, docente di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza, che, illustrando l’aumento del numero dei reati previsti e dell’entità delle pene, l’ha riportato in un’ottica di consenso politico più che di prevenzione. Il penalista stigmatizzando «il disinteresse per l’approfondimento delle cause di certi reati» ha detto che «si preferisce condannare e buttare via le chiavi senza capire quanto accaduto», modalità che peraltro non diminuisce il tasso di criminalità. Secondo il professor Eusebi «risulta sotto attacco il ruolo strategico dell’art. 27 della Costituzione che parla di rieducazione del condannato dimenticandosi come proprio il recupero degli agenti di reato costituisca il maggior fattore destabilizzante delle realtà criminose. In carcere vi sono migliaia di soggetti in condizioni disperate che non dovrebbero trovarsi lì. I casi davvero passibili di reclusione sono circa un terzo dell’attuale popolazione penitenziaria, eppure c’è resistenza a introdurre pene extra detentive di natura progettuale più proficue per la società e foriere di minore recidiva, e che eviterebbero i numerosi suicidi in carcere. Così invece di ridurre la popolazione penitenziaria si preferisce costruire nuove carceri».

La parola è passata a Francesco Palazzo, professore emerito di Diritto penale all’Università di Firenze, tra i più autorevoli penalisti italiani, già presidente di varie commissioni ministeriali di riforma dell’ordinamento penale. «Nel decreto in discussione tramite il tema della sicurezza si persegue il miraggio di una società ideale, ordinata, pulita, decorosa e pacifica, resa tale da norme penali destinate però a rimanere inefficaci. Tale decreto esprime la convinzione comune in ambito penalistico che la sicurezza costituisca la precondizione di ogni benessere sociale, difforme dal quadro costituzionale. Questo farà crescere il contenzioso e aumentare le questioni interpretative, che confidiamo la Corte costituzionale sappia risolvere con la consueta saggezza».

Il punto di vista del Diritto costituzionale è stato espresso da Renato Balduzzi, docente nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica e presidente dell’Associazione Italiana Costituzionalisti. Il professore, infatti, ha posto il concetto di sicurezza in relazione a quello di giustizia e di Stato di diritto, con un’attenzione particolare alle radici solidaristiche proprie del nostro impianto costituzionale che si richiamano al dialogo e all’inclusione. «La militarizzazione della società ci è estranea e l’esercizio della responsabilità punitiva dello Stato richiama il valore della legge, che non è solo forza».

Una prospettiva meno tecnica e più esperienziale è stata portata da don Claudio Burgio (nella foto in alto), cappellano dell’Istituto Penitenziario Minorile “Beccaria” di Milano. Sulla base del dato statistico relativo all’aumento dei minori incarcerati nell’ultimo anno, con relativo sovraffollamento delle carceri a fronte della penuria di educatori e agenti di polizia penitenziaria, ha riaffermato il concetto di giustizia in relazione alla rieducazione. «Il paradigma del carcere e della forza muscolare della legge va superato e ripensato perché va in controtendenza al ruolo rieducativo sancito nella Costituzione. Come si fa a rieducare chi dorme per terra su un materassino sporco? I suicidi aumentano soprattutto all’inizio della carcerazione, e poi verso la fine perché coloro che sono in carcere sanno che fuori non ci sarà nessuno ad attenderli. La rieducazione dei condannati può promuovere il benessere di tutto il corpo sociale se il messaggio da far pervenire è che lo Stato non è contro di loro ma per loro e con loro».

Il dibattito con il pubblico, che ha fatto seguito alle varie relazioni, si è focalizzato sul senso del diritto oggi e sul contributo che può dare l’università per l’elaborazione di provvedimenti normativi che tengano conto delle istanze di tutte le realtà coinvolte per una politica che, senza inseguire facili ed effimeri successi, offra progetti efficaci e di ampio respiro.

Un articolo di

Agostino Picicco

Agostino Picicco

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