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La cultura popolare che unisce il Paese

15 novembre 2024

La cultura popolare che unisce il Paese

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Doveva essere una lezione aperta a compimento di una lunga carriera di ricerca e di insegnamento. Ma quella tenuta dal professore Fausto Colombo, mercoledì 13 novembre, è stata anche molto altro. Soprattutto è stata un’indicazione di metodo su come in un’Università ci si possa, e forse pure ci si debba, interrogare sui temi della contemporaneità.

Il lungo applauso al termine dell’incontro - con colleghe e colleghi, studentesse e studenti di oggi e di ieri in piedi a battere le mani - è stato un segno di gratitudine anche per questo approccio, per questo modo di interpretare il ruolo del docente che ha tanto caratterizzato il percorso di Colombo.

Classe 1955, annoverato da tempo tra i maggiori studiosi italiani di comunicazione, il professore è stato allievo di Gianfranco Bettetini in Università Cattolica. La sua vita accademica si è svolta principalmente nella sede milanese dell’Ateneo, dove ha insegnato Teoria e tecnica dei media dapprima presso la Facoltà di Lettere e Filosofia e poi di Scienze politiche e sociali. Sempre a Milano ha diretto il Dipartimento di Scienze delle Comunicazioni e dello Spettacolo e ha messo al servizio dell’Ateneo la propria competenza nelle attività di comunicazione e di promozione dell’immagine dell’Università, come delegato del rettore Franco Anelli, successivamente come prorettore. Apprezzato in campo internazionale, Colombo ha tenuto corsi e lezioni, intessuto relazioni all'Université Stendhal di Grenoble, all'Université Lumière a Lione e alla Sorbonne a Parigi. Ha inoltre collaborato con grandi aziende di comunicazione e istituzioni culturali.

Un articolo di

Francesco Chiavarini

Francesco Chiavarini

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Nei suoi studi ha approfondito l’impatto delle tecnologie sulla società, dedicandosi negli ultimi tempi ai processi di digitalizzazione dei media e della comunicazione politica. All’inizio della sua attività di ricerca aveva preso in esame la cultura popolare in Italia e la sua trasformazione in cultura di massa sotto la spinta dell’industrializzazione. Proprio su questo argomento, al centro di un libro in uscita scritto con Lorenzo Luporini, è voluto tornare mercoledì davanti ad un’aula magna gremita di persone.

«Credo che ci sia anche una ragione politica per parlare di cultura popolare. Oggi si discute moltissimo dell’identità del nostro Paese come di una nazione, ma il nostro Paese è cresciuto come un patchwork di identità e continua ad esserlo. Guardando la cultura popolare, si vede molto bene che cosa sia la fucina della identità nazionale, che oggi vede l’apporto non più solo del Nord e del Sud, ma anche delle nuove generazioni di migranti», ha detto Colombo.

La discussione ha preso le mosse dal racconto della vicenda di Pellegrino Artusi, definito per l’occasione come l’inventore della cucina italiana.Gli Artusi erano originari di Forlimpopoli, in Romagna, regione allora appartenente allo Stato Pontificio e infestata dalle scorribande del brigante noto come il Passator Cortese. In seguito, la famiglia si trasferì a Firenze, dove ebbe una discreta fortuna. Poco interessato agli affari, però, Pellegrino vendette l’azienda e si dedicò alle sue passioni: i viaggi e il buon vivere.


«Girando per il Paese e, soprattutto, assaggiando - ha sottolineato Colombo -, Artusi si accorse che l’Italia non c’era: i siciliani non conoscevano il risotto, i milanesi ignoravano cosa fossero gli spaghetti. Le barbabietole erano utilizzate solo dalle comunità ebraiche». Fu così che nacque l’idea di “fare gli italiani” cominciando dalla cucina. Si trattava, in definitiva, di rendere noto agli uni quello che non sapevano degli altri, utilizzando l’italiano come lingua comune.

Il ricettario, “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, ebbe una vicenda editoriale travagliata, ma oggi è semplicemente “l’Artusi”, un punto di riferimento per la gastronomia e, secondo Colombo, «una metafora della fucina della nostra identità nazionale», da sempre composita e multiforme.

Un altro snodo importante, messo in luce in un discorso ricchissimo anche di aneddoti e retroscena su 150 anni di industria culturale e dello spettacolo, riguarda “L’Inferno di Topolino”, storia a fumetti pubblicata da Arnoldo Mondadori a partire dal 1949. Scritta da Guido Martina e disegnata da Angelo Bioletto, quest’opera - ha evidenziato il professore - è diversissima da quelle prodotte dalla Disney in America, perché recupera elementi grafici peculiari della nostra tradizione nazionale per educare intrattenendo attraverso la parodia di un testo colto. Ma, soprattutto, in quelle vignette miscela perfetta dell’intero immaginario disneyano, emergono l’amore e l’ammirazione per l’America da parte dei due autori. Questo sentimento, che è il tratto caratteristico dell’Italia degasperiana, è come uno specchio nel quale si riflette l’immagine di un Paese che vedeva oltreoceano un modello per risollevarsi dalla guerra.

Le ricette, i fumetti, le canzoni di Gaber e de “I Gufi”, le trasmissioni radiofoniche nell’Italia fascista, come “I Quattro Moschettieri”, gli eccessi di uno spettacolo televisivo quale “Indietro tutta!” di Renzo Arbore, i film di Sergio Leone e i Gialli Mondadori, l’eterna nostalgia per gli anni Sessanta del film “Sapore di mare” uscito all’inizio degli Ottanta, le infinite serie televisive delle piattaforme: tutti questi prodotti di ieri e di oggi che cosa raccontano del nostro Paese?     

Cultura popolare e cultura delle élite, alto e basso sono, in realtà, le correnti di un unico grande flusso in cui tutti siamo immersi. Dentro questo fiume, in questi anni, Fausto Colombo ha insegnato a nuotare per scoprire chi siamo per davvero.

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