Oltre dieci anni di lavoro sul campo nelle aree rurali più povere hanno dimostrato che l’innovazione parte dalle donne: sono loro il vero fattore trainante verso condizioni economiche e sociali migliori. È questo il principale risultato del progetto VICSUS, i cui esiti sono stati raccolti nel volume La sfida dello Sviluppo Umano e Integrale nei Paesi a Basso Reddito. Edito da Vita e Pensiero, il libro è stato presentato giovedì 11 dicembre nella sede di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore durante un incontro promosso dal Dipartimento di Scienze Politiche e dalla Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali.
Il progetto VICSUS, finanziato dalla Fondazione Invernizzi, ha riguardato alcuni villaggi agricoli in India (nella regione del Meghalaya) e in tre Paesi africani: la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia e il Burundi. I beneficiari sono stati aiutati con la fornitura di beni (sementi e attrezzi agricoli) in cambio di ore di lavoro per attività comuni o per corsi di formazione, secondo la formula del microcredito in natura, normalmente adottata nei contesti più marginali dove non sarebbero efficaci prestiti in denaro. Sono state inoltre sostenute piccole attività collaterali all’attività agricola (dalla costruzione di orti comunitari ai forni per cuocere il pane, ai sistemi di igienizzazione dell’acqua). Nonostante le differenze culturali fra le aree geografiche, ovunque si è rivelata vincente la scelta di coinvolgere le donne.
Essendo stato elaborato grazie alla collaborazione di cinque facoltà dell’Ateneo (Scienze agrarie, Economia e Giurisprudenza, Scienze Politiche e Sociali, Scienze dell’educazione, Scienze bancarie) e delle sedi di Milano e Piacenza, l’intervento è anche un esempio di collaborazione interdisciplinare.
Da questo punto di vista è un piccolo modello di ciò che intende promuovere il Piano Africa dell’Università Cattolica, come ha spiegato Mario Molteni, professore di Economia aziendale e direttore della struttura d’azione dell’Ateneo istituita per promuovere le iniziative nel continente africano all’interno di un quadro organico: «Il progetto che questo volume racconta bene precede il Piano Africa e dimostra che ci muoviamo su un terreno già arato».
«Abbiamo messo a punto un approccio alla cooperazione che abbiamo denominato C3S, volto ad assicurare non solo cibo sufficiente, ma anche sicuro e sostenibile; e per farlo ci siamo basati su un approccio bottom-up, cioè dal basso, attraverso il coinvolgimento della comunità, a partire proprio dalla dimensione più piccola, quella familiare – ha spiegato Paolo Sckokai, professore di Economia agro-alimentare e coordinatore del progetto –. Questa modalità, unita a un approccio olistico, ci ha permesso di superare i limiti di interventi più tradizionali, che spesso falliscono perché si scontrano con credenze antiche, carenze strutturali e non riescono a portare l’innovazione sino al contadino».
Una leva fondamentale è stata l’educazione. «La vulnerabilità infantile non deriva solo dalla scarsità di cibo, ma anche da diete scorrette, frutto di usanze tramandate da generazioni. A volte è bastato far conoscere alcuni alimenti più ricchi di proteine per migliorare la situazione», ha sottolineato Marisa Musaio, professoressa di Pedagogia generale.
E la chiave per innescare il cambiamento sono state proprio le donne. Perché sono loro ad accudire i bambini, ma anche perché rappresentano la principale forza lavoro nei campi. Soprattutto in quei Paesi attraversati da conflitti, dove gli uomini sono impegnati a combattere.
«Pur essendo i soggetti più deboli, escluse dalla proprietà delle terre, le donne sono il pilastro dell’agricoltura, si preoccupano della crescita dei figli e sono anche destinatarie affidabili del microcredito: investire su di loro significa stabilizzare intere comunità», ha ricordato Beatrice Nicolini, professoressa di Storia e delle istituzioni dell’Africa.
«Il nostro progetto ha dimostrato che dove sono state formate le donne, l’innovazione è stata molto più veloce», ha evidenziato Giulia Tringali, dottoranda in Peace Studies.
Sono state proprio le donne il grimaldello per scardinare abitudini tramandate da generazioni. «Ciò che frena l’innovazione tecnologica è spesso, da una parte, la mancanza di conoscenza e, dall’altra, la diffidenza verso qualsiasi novità: agire sui fattori culturali, a partire dalle donne, si è rivelato cruciale», ha osservato Giuseppe Bertoni, docente di Fisiologia animale. Pur non credendo che la soluzione al problema della sicurezza alimentare possa venire solo dai piccoli agricoltori, il professore – che è stato anche direttore dell’Istituto di Zootecnica della Facoltà di Agraria di Piacenza – ha sottolineato che «fare tanti interventi su una scala ridotta può generare un effetto imitativo virtuoso, che agisce come moltiplicatore».
È per esempio quanto accaduto in Burundi, uno dei Paesi più poveri dell’Africa, dove il progetto VICSUS ha aiutato un imprenditore africano, André Ndereyimana, a lanciare una start-up che distribuisce mezzi di produzione e prodotti agricoli a soggetti estremamente poveri, in cambio dell’impegno a seguire corsi di formazione. «I primi dati mostrano un aumento del 10% della scolarizzazione dei figli tra i beneficiari», ha rivelato Andrea Lionzo, professore ordinario di Financial Accounting.
In collegamento da remoto, Ndereyimana si è mostrato entusiasta: «È iniziato un percorso che sta cambiando le comunità dall’interno».
Nel pomeriggio, invece, un altro evento in Ateneo ha avuto al centro ancora l’Africa : il Charity program dell’Università Cattolica ha celebrato i 25 anni di collaborazione con la Fondazione Italia Uganda. È stata un’occasione per conoscere l’esperienza fatta nei Paesi africani da studenti, studentesse e personale tecnico amministrativo coinvolto nei progetti di cooperazione.