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Qual è il ruolo degli intellettuali?

07 aprile 2025

Qual è il ruolo degli intellettuali?

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Martedì primo aprile, nel pomeriggio, in un’aula della sede milanese dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, David Bidussa parla agli studenti del corso di letteratura italiana contemporanea del professor Giuseppe Lupo. La discussione verte sul ruolo che gli intellettuali hanno avuto nel corso del ’900 e quale spazio abbiano oggi, tema dell’ultimo saggio dello storico, dal titolo Pensare stanca”, (Feltrinelli).

Al termine della lezione aperta, una ragazza alza la mano e domanda: «Mi scusi, potrebbe indicarmi un intellettuale vivente?» Dopo un attimo di esitazione, sorridendo, Bidussa risponde: «Beh, diciamo che non ne vedo molti in giro».

La battuta è forse un giudizio severo, persino ingeneroso, per quanto addolcito dall’ironia, ma senza dubbio coerente con la visione dell’autore.

Lecturer alla Hebrew University di Gerusalemme all’inizio della sua formazione, collaboratore di giornali e radio in Italia, animatore culturale legato alla Fondazione Feltrinelli, di cui è stato direttore della ricchissima biblioteca e poi direttore editoriale, Bidussa ha, per sua stessa ammissione, uno sguardo «esigente» sul suo tempo, in particolare sul rapporto tra uomini di cultura e società.

Come ha spiegato, per esercitare il compito dell’intellettuale non basta essere una persona colta: bisogna, «a partire dalla propria competenza, uscire dal proprio campo, per costruire, con gli strumenti concettuali che si possiedono, nuovo sapere».

Questo criterio porta inevitabilmente Bidussa a essere molto selettivo tanto sul panorama contemporaneo, che ha fatto della specializzazione il suo mantra, quanto sul passato, oggetto specifico del saggio, in cui non definisce tanto una lista di personalità, quanto un canone.

In base a questo principio, per esempio, nella galleria di ritratti che compongono il libro è compresa Simone Weil, ma sono esclusi Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. La brillante pensatrice francese andò in Germania nell’estate del 1932 e, nelle lettere che scrisse da Berlino in quel periodo, descrisse con lucidità, all’età di appena 23 anni, la crisi della democrazia e l’affermarsi della dittatura. Al contrario, i due uomini, anche loro all’epoca ancora giovani studiosi, si recarono nello stesso paese un anno dopo, quando Hitler aveva già preso il potere da qualche mese, ma di quel soggiorno furono colpiti esclusivamente dalla lezione di Husserl sulla fenomenologia. Mentre dunque Weil colse l’enormità di quello che stava accadendo intorno a lei, Aron e Sartre, immersi nei loro interessi accademici, non videro. Sarebbe quindi proprio tale cecità, secondo Bidussa, a escluderli dalla categoria.

Tale rigore, che può sfiorare l’intransigenza, non ispira sconforto ma, al contrario, illumina il vuoto che si è aperto, ponendo l’urgenza di colmarlo con modalità anche molto diverse da quelle tradizionali.

Ripercorrere la parabola degli uomini di cultura che hanno esercitato un ruolo pubblico aiuta a comprendere quale spazio rimanga oggi e come lo si possa occupare.

Secondo la ricostruzione di Bidussa, quando ancora i partiti avevano un ruolo centrale nella società, gli intellettuali erano dissidenti: il loro compito era mettere in discussione le certezze della propria parte politica. Questo è ciò che fecero Walter Benjamin, la già citata Simone Weil, Victor Serge, ma anche, dopo di loro, Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte e Furio Jesi.

Con la crisi dei partiti, a partire dagli anni Settanta, gli uomini di cultura che si sono assunti tale compito si sono occupati di indicare i nodi che il senso comune non era in grado di sciogliere. È questa la linea scelta da quelli che Bidussa definisce “intellettuali radicali”: Susan Sontag, Edward Said, Tony Judt, Zygmunt Bauman e Tzvetan Todorov.

Oggi, con la crisi conclamata della democrazia, in cui il presente sembra immodificabile, secondo Bidussa i colti che ambiscono a quel ruolo «dovrebbero raccogliere la sfida di proporre un’idea di futuro».

Se dunque è vero che di intellettuali, nel senso stretto usato da Bidussa, se ne vedono pochi in giro, è altrettanto vero che persino nell’epoca della disintermediazione, in cui l’opinione di uno vale quanto quella di un altro, indipendentemente dalle competenze, la loro funzione non si è esaurita. Ma come ha suggerito Marco Fort, dottorando di ricerca in Letteratura, forse bisognerebbe «ritrovare il mandato sociale», oppure, come ha indicato concludendo la discussione Lupo, «rendersi conto che dopo l’11 settembre la ricreazione è finita» ragione per cui occorre «tornare a fare la fatica di pensare di nuovo alla storia da cui avevamo creduto di poterci congedare».

Un articolo di

Francesco Chiavarini

Francesco Chiavarini

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