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Il perdono tra umano e divino: una via di speranza per l’umanità in conflitto

09 giugno 2025

Il perdono tra umano e divino: una via di speranza per l’umanità in conflitto

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Dio è misericordioso, clemente, compassionevole, fonte di ogni grazia. In virtù di questi attributi il Signore perdona i nostri peccati. Sul punto sono concordi, seppure con accenti differenti, tutte e tre le religioni monoteistiche. Tuttavia, che cosa significhi per cristiani, ebrei e musulmani essere perdonati da Dio non è del tutto chiaro. Tanto meno è evidente se oggi i fedeli ne facciano esperienza, e se tali esperienze siano diverse per gli appartenenti a ognuna delle tre religioni.

Comprendere esattamente che cosa sia, per i credenti, il perdono divino – e tanto più come sia percepito – è come entrare in un labirinto. Per quanto esplorarlo sia fondamentale, poiché l’idea di perdono divino condiziona anche la capacità di perdonarci gli uni con gli altri nelle società da quelle fedi plasmate, l’argomento rimane un terreno d’indagine pressocché vergine.

In questo dedalo ha provato a muovere i primi passi un gruppo multidisciplinare di ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dell’Università di Bergamo, in collaborazione con due partner internazionali: la Hebrew University di Gerusalemme e la Cyprus Science University.

Finanziata da una fondazione statunitense la cui missione è promuovere il dialogo tra scienza e religione – la John Templeton Foundation – attraverso un bando internazionale, la ricerca sul perdono divino ha permesso di mettere a punto una scala di valutazione in grado di definire il concetto e confrontarlo nei diversi contesti religiosi.

La presentazione della prima fase di questa ricerca è avvenuta giovedì 29 maggio nel campus milanese dell’Università Cattolica, durante il seminario “Il perdono tra umano e divino: una via di speranza per l’umanità in conflitto”, organizzato dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia.

Innanzitutto, i ricercatori hanno individuato quattro tipi di esperienza del perdono divino: i fedeli sentono che Dio li perdona quando fanno il possibile per non ripetere gli stessi peccati in futuro (perdono circostanziale); confidano nell’empatia e nell’atteggiamento accogliente e non punitivo di Dio (perdono compassionevole); si sentono assolti anche senza cambiare i loro comportamenti (perdono senza cambiamento); oppure, all’estremo opposto, si percepiscono abbandonati da Dio qualunque cosa facciano per rimediare all’errore (assenza di perdono).

Messa a punto la scala di valutazione, i questionari sono stati distribuiti a un campione di fedeli cristiani, ebrei e musulmani (2.977 partecipanti totali tra Italia, Turchia e Israele intervistati tra settembre e novembre 2024).

Dei tre gruppi, i cristiani sono quelli che si sentono più peccatori: solo il 7% ha dichiarato di non aver mai commesso un peccato, a fronte del 14% degli ebrei e del 9% dei musulmani. Ma in genere, proprio i cristiani sono anche coloro che attribuiscono meno gravità agli errori commessi. Il punto forse ancora più rilevante è che vi sono differenze anche nella percezione del tipo di perdono divino che si ritiene di ricevere.

Come ha spiegato Daniela Barni, professoressa associata in Psicologia Sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Bergamo, «mentre le persone di religione cristiana riportano una percezione del perdono divino prevalentemente incondizionata, i credenti musulmani evidenziano anche l’importanza dell’impegno a non ripetere l’errore e le persone di religione ebraica sottolineano la necessità di un miglioramento personale per poter essere meritevoli del perdono divino». Per gli ebrei, inoltre, entra in gioco anche un'altra componente: per una quota significativa partecipare a riti collettivi della propria comunità religiosa è importante per sentirsi riconciliati con Dio.

Naturalmente, il perdono divino ha a che vedere con il peccato. Anche in questo caso vi sono sensibili differenze tra le religioni monoteistiche. Come ha spiegato Shahrzad Houshmand Zadeh, teologa musulmana che insegna alla Sapienza di Roma, pur condividendo lo stesso racconto della caduta dall’Eden, per l’islam l’errore che costa all’uomo la cacciata dal Paradiso terrestre «ricade su Satana, non sull’uomo», per cui «il male è al di fuori del suo operato», non è insito nella natura umana.

Un’idea, quest’ultima, che invece entra nel cristianesimo, ma a causa di una eccessiva semplificazione. Come ha spiegato don Luca Ferrari, teologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il peccato originale, che ci viene insegnato a catechismo, «va inteso come peccato originario, vale a dire come il prototipo da cui scaturiscono tutti gli altri» e consisterebbe «in un atto di orgoglio, o per dirla con Sant’Agostino, in un amore di sé spinto sino al disprezzo di Dio».

Ma ci sono anche peccati che possono essere perdonati solo in una dimensione trascendente, quindi esclusivamente divina, mentre tra gli uomini – in una dimensione storica – restano drammi irrisolti, «moniti», «ferite aperte», ha aggiunto Elena Lea Bartolini De Angeli, saggista e docente di Ebraismo ed Ermeneutica ebraica, riferendosi alla Shoah: «se anche io personalmente potessi perdonare i gerarchi nazisti che sterminarono parte della mia famiglia, non potrei accordare tale perdono a nome dei miei parenti che non ci sono più».

Fatte salve queste differenze, in generale «chi è religioso è più propenso a perdonare», ha spiegato Camillo Regalia, direttore del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Ateneo, citando la storia di Terri Roberts, raccontata in un libro di successo negli Stati Uniti, Forgiven. Il 2 ottobre 2006, in un comune rurale della Pennsylvania, il figlio di Terri, Charlie, che raccoglieva il latte prodotto nelle fattorie della zona per l’azienda del suocero, entrò armato nella scuola di una comunità Amish, uccidendo cinque ragazze, ferendone gravemente altrettante e togliendosi poi la vita. Al funerale dell’omicida, preso d’assalto dai cronisti, gli uomini e le donne della comunità fecero scudo alle telecamere impedendo le riprese. Quando fu chiesto loro perché lo stessero facendo, risposero che anche l’omicida aveva una madre e un padre: anche il loro dolore andava rispettato. Quando, in seguito, Terri si ammalò di cancro, furono proprio i suoi vicini Amish a prendersi cura di lei.

Motivata o meno da ragioni religiose, la capacità degli uomini di perdonarsi gli uni con gli altri è una «risorsa preziosa», come ha efficacemente illustrato il professor Regalia nella sua ampia relazione introduttiva, che riassumeva anche i contributi di altri colleghi. Certo, il perdono umano può essere strumentalizzato, ha spiegato. E qui il pensiero va inevitabilmente ai casi di femminicidio nei quali, spesso, il perdono delle donne per le violenze subite dai loro compagni, mariti o familiari – che impedisce loro di denunciarli - è più una fuga dalla realtà che una scelta consapevole.

«Quando, invece, nasce da una lunga e lenta, a volte anche contraddittoria elaborazione personale, è un atto liberatorio: fa stare meglio chi lo pratica, sia psicologicamente sia – come studi clinici hanno dimostrato – anche fisicamente», ha sottolineato Regalia.

Per questo il perdono, divino e umano, è anche un bene pubblico. Che andrebbe tutelato. Tanto più in questi tempi segnati da conflitti e lacerazioni.

Un articolo di

Francesco Chiavarini

Francesco Chiavarini

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