È stata presentata martedì 9 settembre la ricerca “10 anni di azioni a voto maggiorato in Italia” curata dai docenti Massimo Belcredi, Silvia Rigamonti e Andrea Signori nell’ambito del Centro di ricerche finanziarie sulla corporate governance (Fin-Gov). Dopo i saluti istituzionali della preside della Facoltà di Economia Antonella Occhino e del direttore del Dipartimento di Scienze dell’economia e della gestione aziendale Mario Anolli, Silvia Rigamonti, docente di Finanza aziendale, ha illustrato i risultati dell’analisi. Discussant della presentazione è stato Marco Maugeri, docente di Diritto commerciale all’Università di Roma Tre. L’incontro è proseguito con una tavola rotonda che, moderata dal docente di Diritto commerciale dell’Ateneo Duccio Regoli, ha avuto come relatori Alberto Chiandetti, Equity Portfolio Manager di Fidelity International, Nicoletta Ciocca, docente di Diritto commerciale all’Università di Roma Tor Vergata, Federico Dal Poz, Chief Legal Officer di Amplifon, Guglielmo Manetti, AD di Intermonte, Ulisse Spada, General Counsel di Diasorin, Giuseppe Rescio, docente di Diritto commerciale all’Università Cattolica. Ha concluso i lavori Massimo Belcredi, direttore del Centro di ricerche Fin-Gov.
Il dibattito sull’opportunità di consentire meccanismi di voto potenziato è antico quanto la società per azioni. In anni recenti vari Paesi hanno introdotto o potenziato tali meccanismi al fine di evitare fughe di società all’estero e/o promuovere un capitalismo paziente, capace di controbilanciare la miopia (vera o presunta) di investitori istituzionali interessati ai profitti di breve periodo. Il tema è analizzato in uno studio presentato il 9 settembre da Fin-Gov (il Centro ricerche finanziarie sulla corporate governance dell’Università Cattolica).
La ricerca si occupa del voto maggiorato, introdotto in Italia nel 2014. Le società già quotate possono attribuire diritti di voto supplementari (2 voti per azione) ai soci che ne facciano richiesta dopo aver detenuto ininterrottamente azioni ordinarie per 24 mesi. Il voto maggiorato viene meno con la cessione. Tale sistema si contrappone alle azioni a voto plurimo accessibili alle società non quotate, i cui 3 voti per azione sono, invece, trasferibili a terzi. Il voto maggiorato è stato adottato da un terzo del listino (78 società), mentre il voto plurimo è di fatto trascurato (6 casi): il diverso successo dipende, verosimilmente, dalla possibilità di introdurre la maggiorazione a quotazione avvenuta. Ciò impedisce agli investitori istituzionali di far scontare il loro scarso gradimento per lo strumento sul prezzo di collocamento delle azioni. Entrambi i sistemi sono stati potenziati nel 2024 (consentendo di attribuire fino a 10 voti per azione).
Il primo azionista ha usato il voto maggiorato per raggiungere il controllo dell’assemblea ordinaria e, soprattutto, di quella straordinaria. Il voto maggiorato è stato usato soprattutto dalle imprese familiari. Non si osservano effetti legati al settore in cui opera la società. In particolare, non si riscontra alcun legame col settore tecnologico: questo è importante perché in altri Paesi (ad es. gli Stati Uniti) il voto potenziato è usato soprattutto da giovani società tecnologiche; si è quindi avanzata l’ipotesi che lo strumento serva a proteggere il “fondatore visionario” da pressioni del mercato dirette a massimizzare i risultati di breve periodo a scapito della crescita di medio-lungo termine. Tale ipotesi è però smentita nel nostro Paese: le società italiane quotate hanno un’età media intorno a 60 anni, per cui il fondatore, visionario o meno, sovente non è più tra noi…
Il voto maggiorato ha permesso ai soci di controllo di aumentare la presa sulle decisioni aziendali e, talvolta, di riallocare il proprio portafoglio personale o risolvere partite con familiari che intendevano uscire. Non ha però modificato le decisioni aziendali in materia di investimenti fissi o di M&A, né di ricorso al mercato azionario. Anzi, la maggiorazione ha indotto le società a fare maggiore ricorso al debito; si coglie, inoltre, un moderato effetto negativo sui rendimenti azionari, sintomo di una possibile disaffezione degli investitori verso le società che hanno scelto di “blindarsi”. Complessivamente, lo strumento pare essere stato più utile ai soci di controllo che alle società, le quali – anzi – paiono andare incontro a costi “di agenzia” aggiuntivi, che si manifestano nella riduzione delle opzioni di finanziamento post maggiorazione del voto.