Non credo gliel’avessimo mai detto, ma era il docente più temuto di quegli anni. Perché a lezione ti sorprendeva se avevi gli occhi persi nel vuoto immaginando qualcosa di distante. Invece, lui ti aiutava a tenere i piedi bene in terra, gli occhi a barra dritta in avanti e ti esortava a pensare molto concretamente al lavoro. Walter Passerini, del resto, aveva ideato quel dorso del Corriere – Corriere Lavoro – che funzionava benissimo negli anni Novanta e Duemila (quando il lavoro ancora c’era) e che sfogliavamo avidi, prima ancora di entrare alla Scuola di giornalismo, in attesa del match perfetto tra i noi giornalisti lavoratori del prosismo futuro e le aziende, ancora abbastanza fiorenti. La prima sua richiesta – il primo giorno di lezione, mentre passava tra i banchi a passo lento, strizzando gli occhi su ciascuno con il suo fare forbito, trapassandoci al setaccio – era: “Scrivete una lettera motivazionale”. Lì cadevano gli asini o, meglio, coloro che cercavano di mostrarsi per quel che non erano, o che provavano a fare i fenomeni o che, al contrario, utilizzavano la captatio benevolentiae troppo e male. E lui lì con il randello (ma sempre randellando gentile), a spiegare perché quel datore di lavoro non ti avrebbe preso mai e poi mai, se avessi scritto quelle corbellerie improbabili, o se ti fossi proposto con quel tono sbagliato. Dopo le prime due lezioni in modalità caterpillar, Walter ci andava giù meno pesante, ma con una fissazione precisa: spiegarci il funzionamento della catena produttiva dei media e ricordandoci – allora, in quegli anni – che il futuro sarebbe stato sempre più intermediale e crossmediale. Non poteva non vederci giusto uno che del suo corso - che si intitolava Storia del giornalismo - ne valorizzava perfettamente la contemporaneità e i ponti già gettati sul futuro, ma senza dimenticare le basi etiche e fondative del “mestiere”, come lo definiva.