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Parole chiave per un nuovo umanesimo

18 aprile 2024

Parole chiave per un nuovo umanesimo

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È possibile immaginare un vocabolario comune che contenga i termini di un dialogo condiviso tra discipline diverse che si parlano? Mettere intorno a un tavolo virtuale medicina, filosofia, arte, psicologia e molti altri ambiti di studio apparentemente lontani tra loro è l’obiettivo del progetto di ricerca finanziato dall’Università Cattolica “Cambiamento o trasformazione? Conoscere, comunicare e trascendere nell'era digitale. Per un nuovo umanesimo” che indaga la trasformazione dell’identità umana determinata dallo sviluppo tecnologico. 

«Abbiamo provato a coinvolgere luoghi diversi della città. Qui alla Fondazione Rovati si incrociano la tradizione antica, l’arte contemporanea e il luogo della ricerca scientifica» – ha dichiarato Marco Rizzi, direttore del dipartimento di Scienze religiose dell’Ateneo e promotore del Progetto – in apertura del convegno dello scorso giovedì 11 aprile a Milano intitolato “Parole chiave per un nuovo umanesimo” e moderato da Daniele Perra, docente di Estetica dei nuovi media e di Museologia all’Accademia di Belle Arti di Bergamo e di Visual Arts Management all’Università Cattolica.

Lo spazio dell’arte, infatti, è uno di quelli dove si guarda l’arte nelle sue sfaccettature: arte come terapia, come prodotto (ad esempio dell’intelligenza artificiale), come esperienza di fruizione. Come ha detto nel suo saluto iniziale la presidente della Fondazione Giovanna Rovati «qui si vuole unire l’arte con il benessere. È un museo gentile perchè è un laboratorio di ricerca che studia il rapporto tra benessere e salute, un luogo di socializzazione e coesione sociale».

Corpo, dialogo, formazione, immagine, intelligenza artificiale, mutamento, soggetto e spazio sono le parole chiave su cui gli esperti di diverse discipline sono stati chiamati a interrogarsi per indagare quella trasformazione che chiede di ripensare i concetti di “uomo” e di “umanesimo”.

Il filosofo dell’Università Cattolica Giuseppe D’Anna ha scelto la parola “soggetto” partendo dall’impossibilità di trasferire il concetto di soggettività alle macchine. «Con le macchine si utilizza un linguaggio antropomorfo, ma occorre fare un lavoro di risignificazione semantica. Ad esempio cosa vuol dire che una macchina decide? È l’essere umano che utilizza la tecnica. Non dobbiamo arrivare a ridurre il soggetto a oggetto. Dunque, la soggettività ha una funzione non negoziabile, la funzione di attribuzione di senso». La sfida del nuovo umanesimo è andare incontro a ciò che verrà esplorando ma mantenendo salda la distinzione tra soggetto e strumento.

La parola “immagine” è stata scelta dalla docente di Storia dell’arte contemporanea Elena Di Raddo secondo la quale «l’opera d’arte deve perdere il valore d’immagine e diventare comunicazione della condizione umana, come si evince dalle opere seriali di Andy Warhol». Certo, quando si parla di digitale le cose si complicano perché «l’intelligenza artificiale lavora formando immagini grazie a input che vengono forniti dall’artista. Le macchine sanno generare immagini ma non significa che siano capaci di generare arte finchè sarà l’uomo a definire ciò che è arte e ciò che non lo è».

A mettere al centro la parola “formazione” è stato Andrea Gaggioli, docente di Psicologia generale in Università Cattolica, «perché stiamo prendendo una deriva preoccupante rispetto al rapporto informazione e intelligenza artificiale. L’attenzione oggi ha un valore economico: un video pubblicitario non deve superare i sette secondi se vuole mantenere l’attenzione. Noi alimentiamo questa economia e la trasformazione dell’attenzione e la sua industrializzazione». Come ci dobbiamo comportare allora? «Tenendo presente i valori che definiscono l’uomo, occorre innovare la formazione attraverso la tecnologia ma partendo dai bisogni formativi, dall’esperienza di docenti e studenti e dalle domande che essi pongono rispetto al futuro, come stiamo cercando di fare attraverso il progetto Metaversity». 

La parola “spazio” è stata approfondita dall’artista LETIA (Letizia Cariello) che nella vita lei ha imparato a fare più che a parlare: «Quando lavoro vado in un altro posto e sperimento che c’è continuità tra lo spazio interno e quello esterno. Stabilisco regole elastiche perchè l’esercizio della libertà è una scelta di responsabilità che ci impedisce di dare regole uguali per tutti». Nella creazione di un’opera d’arte «si va oltre sè stessi per rimandare a uno spazio interno dove si manifestano delle immagini. Non ci sono confini, il concetto di materia deve essere libero» – ha dichiarato l’artista. Quando ha creato il suo primo Calendario LETIA non vedeva il tempo: «Il disegno serve per entrare nella materia. Lo spazio interno è reale. Il mio non è un tempo certo, continua a iniziare».
 
Il concetto di “intelligenza artificiale” legato al tema della maternità è stato poi oggetto di riflessione per Eleonora Montagner, docente di Filosofia alla Burgundy School of Business di Digione. «Quando si parla dell’attribuzione di un’opera d’arte si cita la sua “paternità” ma non si dovrebbe piuttosto parlare di maternità? Questo ci darebbe la possibilità di rapportarci con l’umano in un modo diverso» – ha detto la docente –. E la gravidanza rivela un paradigma in cui il velo della corporeità si dissolve nel momento in cui viene vissuta come una divisione tra corpo della donna e corpo di un’altra persona che è ancora il suo corpo. 

Proprio della parola “corpo” ha parlato Marco Giuseppe Rainini, docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiese in Università Cattolica, mettendo in luce tre elementi: «l’incarnazione che significa che Dio entra nella storia per rimanerci con il capo in cielo e il corpo sulla terra; il nesso eucaristico tra presenza, corpo e la comunità che diventa corpo della Chiesa mangiando il Cristo presente nel pane e nel vino; l’antropocentrismo». Le nuove tecnologie devono fare i conti con tutto questo, tenendo presente che le persone difficilmente rinunceranno all’esperienza della comunità in presenza.

Infine, Vincenzo Valentini, docente dell’Istituto di Radiologia del Policlinico Gemelli ha scelto la parola “dialogo” partendo da “prendersi cura” e dal “fare la cura”. «Il primo è il gesto dell’accogliere, accudire e accompagnare che produce nel paziente sollievo e gratitudine. Il secondo significa essere disposti a soffrire e a diventare nuovi (ad esempio accettando che pezzi di sè non ci siano più)» – ha detto il professore –. «L’alta tecnologia si sta imbevendo di AI e per molte malattie rappresenta un’opportunità di guarigione in più ma perchè sia sostenibile ed equamente distribuita essa ha bisogno di filiere complesse, veloci e sostenibili e questo comprime il prendersi cura e il dialogo con i pazienti». Un monito di buon senso che, pur non prescindendo da scienza e tecnologia, va nella direzione del rispetto dell’umano ha chiuso il suo intervento: «Ego cum ego sum, se so stare con l’altro riesco a essere una unità che sa prendersi cura e far fare la cura al paziente. Prescriviamo un cardio cinetico, un diuretico e sei concerti di Mozart!». 
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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