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Anziani tra fragilità, cura e autonomia

14 dicembre 2022

Anziani tra fragilità, cura e autonomia

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Quella dell’invecchiamento è una conquista sociale importante. Se pensiamo che all’inizio del Novecento la speranza di vita era di 35 anni, nel dopo guerra 55 e nei primi anni Settanta 72 fino ad arrivare agli 82,4 segnalati dall’Istat nel 2021, possiamo dire che si tratti di un’opportunità importante a livello sociale. Complici, certamente, un lungo periodo senza guerra dopo il secondo conflitto mondiale, la crescita dell’istruzione e del benessere, le conquiste della medicina.

Uno sguardo scientifico e al tempo stesso colmo di attenzione premurosa l’ha offerto il convegno “Persone anziane e cura. Presentazione della ricerca Riflessioni pedagogiche e narrazioni nel tempo della pandemia”, promosso dalla facoltà di Scienze della formazione, che si è svolto martedì 13 dicembre nel campus milanese dell’Università Cattolica e che si è rivolto, con l’aiuto di esperti pedagogisti, sociologi, medici e operatori del settore, ai futuri professionisti della cura che oggi si stanno formando in università.

Siamo nel tempo dell’imprevedibile, della precarietà, del limite, come ha sottolineato nei saluti il preside della facoltà di Scienze della formazione Domenico Simeone. E proprio in questo tempo segnato dal post Covid-19 «il soggetto umano che maggiormente ha subito il contraccolpo è la persona anziana, anzi sono le persone anziane» - ha dichiarato aprendo l’incontro l’organizzatrice Marisa Musaio, docente di Pedagogia generale e sociale. 

La lettura di brani del libro I cura cari da parte dell’autore, Marco Annichiarico, ha introdotto il tema della patologia (nello specifico l’Alzheimer) che Musaio ha definito «un’occasione propizia perché l’intento della ricerca svolta dai ricercatori e pubblicata nel volume Riflessioni pedagogiche e narrazioni nel tempo della pandemia è stato quello di conoscere i motivi per cui tutti noi, pedagogisti e operatori, vogliamo prenderci cura degli anziani».

Ma chi sono questi anziani di cui parliamo? A tracciarne un rapido identikit è stata Concetta Vaccaro, responsabile area salute e welfare di Fondazione Censis. A partire dai dati citati sull’aumento dell’età degli anziani e dal tasso altissimo della denatalità in Italia (nel 2021 i nuovi nati sono stati 400.000, un numero irrisorio), il quadro è inquietante: nel 2040 un terzo della popolazione sarà di persone con più di 65 anni; entro il 2050 avremo 4000 grandi anziani in più e i novantenni raddoppieranno nei prossimi 20 anni. Questa dinamica è rilevante dal punto di vista epidemiologico e del welfare se si considera che ci saranno 65 anziani su 100 persone in età attiva e che i pochi giovani dovranno farsene carico.

Tuttavia, l’aspetto positivo è che la condizione degli anziani è in continua evoluzione e che sono sempre di più i giovani anziani colti che viaggiano, vanno a teatro, hanno maggiore disponibilità economica rispetto ai giovani, e condizioni cliniche migliori. Inoltre, questi anziani non si sentono tali fino a quando non intervengono problematiche legate alla salute. E in particolare tra i 65 e i 74 anni insorgono malattie croniche degenerative che possono portare alla non autosufficienza. Oggi le persone con una disabilità importante sono 3 milioni 150mila, il 5,2% della popolazione, di cui 1,5 milioni con un’età superiore a 75 anni.

Una situazione divenuta drammatica durante il Covid che ha colpito gli ultra 80enni fragili con due o tre patologie e che ha impattato fortemente laddove sono venuti meno i caregiver, il medico, i servizi domiciliari a causa delle restrizioni.  

La solitudine si è così aggiunta ai problemi di salute: tutti segnali di una “cultura dello scarto”. Di fronte a questa realtà la dimensione sanitaria non è più l’unica priorità. Anzi, «noi medici usiamo i farmaci in modo inversamente proporzionale alle nostre capacità di cura» - ha dichiarato Vittorio Fontana, medico specialista in Geriatria dell’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo -. Proteggere le persone fragili dagli eccessi della medicalizzazione e parlare con il paziente, ascoltarlo, scambiare sguardi: questo ha insegnato la pandemia, a trovare soluzioni che funzionino, non miracolose. Siamo immersi nel cosiddetto ageing shaming, una discriminazione verso gli anziani perché siamo abituati a vederli come un problema e non riconosciamo in loro gli adulti, i giovani, i ragazzi, i bambini che sono stati. Emblematica la nota frase del film di David Lynch sulla disabilità The elephant man: “Non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!”.

E qui si apre la questione della cura. Cosa deve fare l’operatore di fronte all’anziano fragile e bisognoso di cura? Innanzitutto, riconoscere la persona anziana, nella dignità della sua storia e promuovere, laddove possibile, la sua autonomia. Per questo è fondamentale fare appello all’interdisciplinarietà e a diverse competenze come quelle sanitarie, pedagogiche, informatiche. 

Il digital divide ha avuto un peso importante e ha riguardato soprattutto la popolazione anziana meno istruita e in particolare le donne, come ha sottolineato Piermarco Aroldi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi in Cattolica. Del resto, i modelli di digitalizzazione pubblico e privato hanno il limite di promuovere il cosiddetto networked individualism dove viene demandata al singolo soggetto la responsabilità di formarsi per usare le tecnologie. Si può immaginare un terzo modello apposito per il paradigma della cura? Il modello delle tecnologie di comunità, similmente a quello che si fa a scuola. Per rafforzare questa proposta Aroldi ha ricordato tre parole emerse nello studio dei sociologi della Cattolica, ovvero relazione (la condivisione delle tecnologie in un’ottica di teaching avvicinerebbe il caregiver all’anziano), narrazione (occorre dare voce a chi non ce l’ha), cura (la presa in carico comunitaria dell’anziano e dei suoi bisogni può essere implementata dall’uso delle ICT). Il professionista della cura può integrare le sue competenze con le skills digitali, diventando una sorta di mediatore tecnologico. 

E a parlare dell’esperienza sul campo sono state prima Lucia Zannini, docente di Pedagogia generale e sociale all’Università degli studi di Milano, e Katia Daniele, dottoranda in Educazione in Bicocca, e poi la direttrice della RSA Opera don Guanella di Barza, Roberta Gerola, e Valentina Belloni, educatrice e dottoranda sul tema Pedagogia e education. Oltre alla speranza che si possa superare la separazione tra servizi sociali e sanitari, è emersa l’importanza del lavoro di équipe, dove in particolare gli educatori hanno dimostrato durante la pandemia di saper mediare, trovare le soluzioni per mantenere i rapporti tra l’interno e l’esterno, sostenere la famiglia che ha dovuto delegare il proprio familiare a persone sconosciute senza più poterlo incontrare di persona.
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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