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L’arte rappresenta e giudica la guerra

29 aprile 2022

L’arte rappresenta e giudica la guerra

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La guerra priva l’essere umano della sua umanità. È quanto emerge in estrema sintesi dai quattro video su Il canale dei libri di YouTube dove docenti esperti di storia dell’arte sono intervenuti sulla rappresentazione della guerra attraverso l’arte figurativa. La macchina dell’odio è il titolo scelto per la mini serie che ha provato a dare una lettura diversa, ora realistica, ora simbolica, e sempre interpretativa della realtà cruenta di alcuni grandi conflitti che si sono verificati nella storia.

Le incisioni di Jaques Callot, e in particolare Les misères et les malheurs de la guerre del 1633, ad esempio, riportano i disastri provocati dalla Guerra dei Trent’anni soprattutto nella società civile. Riprodotte con figure piccolissime ma molto dettagliate, le incisioni raccontano fatti molto crudi: impiccati, incendi di villaggi e chiese, violenze sulle donne nei villaggi, persone derubate e torturate. Un tono così realistico e cruento non era mai stato assunto e vale come descrizione ma anche come denuncia degli orrori reali della guerra. Ne parla nel primo video Cristina Terzaghi, docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Roma Tre e presidente del Comitato tecnico scientifico delle Belle Arti per il Ministero della cultura. La docente spiega l’arte di Callot alla base di quel genere comico in senso dantesco, ovvero naturalistico, che qui conosce una deriva. Con questa produzione l’artista mette le basi per l’opera I disastri della guerra di Francisco Goya ed esprime un giudizio molto negativo sulla guerra, attraverso la rappresentazione dell’idea tragica dell’umano, cronachistica perchè enfatizza il dolore provocato dalla guerra che non distingue più tra bene e male.

Proprio a I disastri della guerra dell’opera di Goya è dedicato il secondo video a cura di Alessandro Rovetta, docente di Storia dell’arte del Rinascimento in Università Cattolica. Si tratta di circa 80 acqueforti che raccontano quanto è avvenuto durante l’invasione napoleonica francese in Spagna. Approfittando di un vuoto di potere dei Borboni l’invasione è stata affidata a truppe mercenarie che si sono accanite contro la popolazione civile. Secondo il docente la serie va considerata come uno dei primi reportage moderni dai fronti della guerra. Le immagini molto dure e icastiche fermano l’istante di orrore e sono a volte corredate da didascalie che spiegano la reazione immediata dell’artista in veste di reporter (“presentimento”, “non si può vedere”, “questo è ancora peggio” …).

La chiave di lettura dell’opera sembra essere la privazione di umanità di coloro che progettano il male, il disastro come un pervertimento dell’ordine della natura. Questa è la macchina della guerra e ne sono testimoni gli strumenti abitualmente usati per il lavoro, come l’accetta, trasformati in armi che provocano morti violentissime che dissacrano i corpi. Goya sembra giudicare la guerra dagli effetti che produce, come carestia e morte per fame e stenti, e attribuire la responsabilità ai potenti ma ancora più agli inetti dipinti come mezzi uomini.

Da Goya a Picasso. Il terzo video è dedicato a Guernica, l'opera più nota di Pablo Picasso, spiegata da Davide Dall’Ombra, docente di Storia della critica d’arte in Università Cattolica e direttore di Casa Testori. Si tratta del quadro che per antonomasia associamo alla guerra. Dopo averlo realizzato nel 1937 per l’esposizione internazionale di Parigi, Picasso lo donò alla Spagna ma il quadro rimase al Moma di New York fino al 1981 perché si attendeva la fine della dittatura di Franco. Fu trasportato poi al Prado di Madrid dove rimase fino al 1992 e infine spostato al Reina Sofia della capitale spagnola dove è tuttora conservato.

Lo spunto per la composizione è la Guerra di Spagna e in particolare la bomba che ha distrutto la cittadina di Guernica incendiandola. Le persone vengono colpite in modo indiscriminato, e così gli animali, le case. Però qui c’è una trasfigurazione, l’arte che sublima l’orrore e la sofferenza innocente.

Il quadro si legge da sinistra a destra. Si inizia dalla donna che urla per lo strazio del bambino morto che ha in braccio, poi i moti del sentimento cambiano. La natura, con il cavallo, partecipa alla lotta, il cavaliere perde ogni possibilità di agire con la spada rotta e queste linee drammatiche non si chiudono. I corpi scissi, dissolti, innaturali governano il quadro e il linguaggio di destrutturazione della figura partecipa al dramma della distruzione della guerra. Quello che prevale è lo strazio, motore di tutto. È il manifesto della guerra perché ce ne mostra l’attualità.

Con il quarto video su Il canale dei libri si affronta la rappresentazione della guerra contemporanea russo-ucraina attraverso la fotografia. Fausto Colombo, docente di Teoria e tecniche dei media e pro-rettore per la Comunicazione dell’Università, evidenzia come oggi siamo particolarmente sommersi dalle immagini e la ragione di questo fenomeno è la diffusione dei social media che eludono il collo di bottiglia dei canali tradizionali che selezionavano le informazioni. Il fatto che la diffusione delle immagini sia meno controllata è un bene e un male al tempo stesso. La scelta è sempre tra nascondere le immagini più violente con il vantaggio di essere compassionevoli verso la vittima ma con il rischio di censurare, e mostrarle con il rischio di essere “pornografici” ma con il vantaggio di mettere i cittadini e i lettori davanti all’evidenza della realtà.

I primi morti violenti vengono esibiti dai fotografi nella guerra civile americana e tuttora alcune autrici sostengono che se non ci fossero queste foto noi non conosceremmo gli orrori del mondo. L’attenzione va sposta sull’etica del vedere: noi possiamo guardare una foto per appassionarci e conoscere, ma possiamo anche guardarla in un’ottica voyeristica, tragicamente compiaciuta.

Papa Francesco ha parlato di guerra sacrilega in relazione al conflitto russo-ucraino a proposito dei corpi scomposti e dilaniati. C’è, infatti, una sacralità del corpo, del vivere e del morire che viene interrotta, ma il tema della verità dell’immagine ci interroga. La guerra è sacrilega perché è contro l’uomo e la sua sacralità, l’uomo che è uno scrigno della creazione, che ha dentro di sé il male ma anche molte potenzialità positive.

In questa guerra c’è qualcosa di brutale. Il professor Colombo ha messo in luce come i corpi svuotati della vita e riempiti di dolore diventano oggetti che, proprio perché annichiliti, ci parlano di un sacrilegio. Ma sorge un’altra domanda: è più sacrilego mostrare una famiglia sterminata alla fermata dell’autobus o è più sacrilego far finta che tutto questo non avvenga? E ancora: la guerra tende così tanto a portare gli effetti del male in primo piano che diventa invisibile il bene che continua a operare (volontari che aiutano, medici che curano, giornalisti che raccontano dal vivo). Non è sacrilego anche nascondere il bene? Risuonano forti le parole di san Paolo: “Dov’è morte la tua vittoria? Dov’è morte il tuo pungiglione?”. Noi siamo fatti per la vita.
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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