NEWS | CELEBRAZIONE EUCARISTICA

La luce della Pasqua illumini il futuro dell'Università Cattolica

24 marzo 2021

La luce della Pasqua illumini il futuro dell'Università Cattolica

Condividi su:

Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia tenuta da S. E. Mons. Claudio Giuliodori, Assistente Ecclesiastico Generale di Ateneo, per la celebrazione eucaristica della Santa Pasqua tenutasi martedì 23 marzo presso la cappella del Sacro Cuore della sede di Largo Gemelli a Milano. 

 

«Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo allora conoscerete che io sono». In questa frase di Gesù troviamo una mirabile sintesi della Storia della Salvezza. È un’espressione carica di significati teologici, esistenziali e spirituali. Ci viene offerta oggi dalla liturgia per prepararci a celebrare la Santa Pasqua in un tempo davvero difficile che sta segnando in modo pesante il cammino dell’umanità, il presente e il futuro della società e anche l’attività del nostro Ateneo, proprio nell’anno del Centenario.

Dal punto di vista linguistico l’espressione “quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo” può apparire enigmatica ma basta rapportarla alla prima lettura per intuirne il significato teologico. Gesù intende collegare in modo diretto quanto sta per accadere a Gerusalemme, ossia la sua condanna e crocifissione, con quanto avvenuto al popolo d’Israele nel deserto del Sinai durante i quarant’anni che lo hanno condotto dalla schiavitù in Egitto alla terra promessa. Il popolo, stanco e affaticato, si era ribellato al Signore e a Mosè attirando su di sé la maledizione dei serpenti da cui Dio lo libera invitandolo ad alzare lo sguardo al segno del serpente di bronzo posto sopra un’asta, come narrato nella prima lettura: «Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l'asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita».

Nell’interpretazione che ne dà Gesù, soprattutto nel Vangelo di Giovanni dove questo collegamento ricorre più volte, tale segno ha un valore profetico perché simboleggia e rappresenta il gesto supremo dell’amore salvifico di Dio che si manifesta nel dono di sé e nel sacrificio di Gesù sulla Croce. L’immagine veterotestamentaria diviene così un’anticipazione della sconfitta del diavolo, il tentatore antico, rappresentato fin dall’inizio nel libro della Genesi sotto forma di serpente. L’effetto di questo innalzamento sulla Croce lo spiega bene la lettera agli Ebrei. Esso avviene per «ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14-15).

La Pasqua è il grande evento della liberazione dal peccato e dalla morte, e quindi da tutto ciò che ci separa da Dio e ci allontana dai fratelli. In questo tempo di pandemia, in cui sentiamo anche noi il morso velenoso del serpente antico che sembra allontanarci dalle persone care, che mette alla prova personale sanitario e strutture ospedaliere, che frantuma le relazioni personali e sociali, che scardina i paradigmi politici ed economici della convivenza umana, che fa crescere paura e smarrimento, che si insinua nelle pieghe della sofferenza per minare la fede e alimentare piccoli e grandi egoismi…, di fronte ad uno scenario così inaspettato e inquietante abbiamo ancora più bisogno di alzare lo sguardo a colui che per noi e per la nostra salvezza ancora oggi viene innalzato sulla croce.

Solo lui può alimentare la speranza che nonostante il persistere di una prova così dura e snervante, è possibile non restare prigionieri della morte, della solitudine, della sofferenza e dello smarrimento. Vivere con fede questo tornante della storia significa rafforzare la certezza che nonostante tutto il Signore Gesù che muore e risorge, ci avvolge con la sua grazia e ci conduce alla pienezza della vita. Con lo splendore della luce pasquale il Risorto ci trasfigura e ci insegna ad amare e a servire la vita con maggiore impegno e dedizione. Che questa sua presenza sia efficace qui ed ora per tutti coloro che rivolgono a lui lo sguardo lo si comprende anche dalle parole che seguono l’evocazione dell’immagine dell’asta, figura della Croce: «allora conoscerete che Io Sono».

Anche in questo caso si tratta di un rimando e dell’attualizzazione di un momento cruciale della Storia della Salvezza. “Io Sono” è la risposta che Dio dà a Mosè quando davanti al roveto ardente chiede quale sia il suo nome (Cfr. Es 3,14). Anche questa espressione che può apparire enigmatica ha in realtà un grande valore teologico e anche filosofico. L’espressione ebraica a cui fa esplicito riferimento è “Ehyeh asher Ehyeh”, che traduciamo in modo non del tutto corretto “Io sono colui che sono”, sta ad indicare comunque una presenza sostanziale e assoluta che si stende nel tempo a abbraccia il passato, il presente e il futuro. Applicando a sé l’ “Io sono” dell’antica alleanza, Gesù vuole dire che il nome, ossia l’essenza di Dio, si manifesta e si compie in lui, in modo particolare nell’evento pasquale.

È a partire da questa visione teologica che la lettera agli Ebrei formula quella bellissima espressione che traduce in termini cristologici il senso dell’Io Sono: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!» (Eb 13,8) o che San Paolo può scrivere nell’Inno della lettera ai Colossesi «È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1, 19-20).

Non deve sfuggirci inoltre l’invito di Gesù ad alzare lo sguardo alla Croce perché attraverso di essa dobbiamo andare ben oltre il momento della prova, del dolore e della condizione terrena. Anche a noi oggi ricorda che: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo». Guardare alla Croce significa quindi alzare lo sguardo al Cielo, ad un orizzonte più grande che dà senso e illumina tutte le vicende terrene. Anche la sfida del momento presente si vince se sappiamo guardare oltre ad una condizione che non rifugge il dramma del momento ma lo supera sapendo che siamo chiamati ad essere «familiari di Dio e concittadini dei santi» (Ef 2,19) e ad abitare fin d’ora quella Nuova Gerusalemme dove - come afferma l’Apocalisse -: «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Ap 21,4-5).

È con questo spirito davvero pasquale che siamo chiamati a vivere anche i contrattempi e le limitazioni che segnano la vita dell’Ateneo e le celebrazioni del centenario. Nessuno poteva immaginare un contesto così apparentemente avverso per i nostri programmi. Eppure anche in questa situazione molte cose buone e importanti stanno accadendo. Siamo stati costretti a fare cose nuove, soprattutto sul versante della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica, che certamente anticipano e preparano il futuro.

Abbiamo testato la nostra struttura, verificando e sperimentando potenzialità confortanti, dall’orientamento alle novità didattiche fino alla stessa terza missione declinata in questi mesi soprattutto con interessanti webinar. Abbiamo visto all’opera un personale dedito e appassionato che con intelligenza e generosità ha saputo far fronte alle tante e continue emergenze. Ma soprattutto non abbiamo smesso di tessere le trame di un intenso dialogo umano e scientifico che vede, docenti, studenti e personale tecnico amministrativo collaborare in modo organico per coltivare e accrescere, anche in tempo di pandemia, quell’ambiente ricco di umanità e valori dove le persone stanno al centro e restano protagoniste di un ricco lavoro educativo, scientifico e culturale.

I nostri fondatori, del resto, ci hanno insegnato che proprio attraverso le difficoltà e le prove, se abbiamo fiducia in Dio e in particolare nel nostro Sacro Cuore, possiamo ancor più esprimere e rendere visibile che questo Ateneo è il frutto stupendo di un miracolo continuo, dove certo conta l’impegno degli uomini ma appare anche chiaro che tutto sgorga da un’opera meravigliosa di Dio. L’Ateneo dei cattolici italiani fin dal suo inizio non si è qualificato come un tempio della scienza tout court ma come il luogo dove si coltivava la “scienza di Dio e il Dio della scienza” come amava dire P. Gemelli, e secondo lo spirito che è ben espresso nel motto dell’Università’: “In religione scientia, in scientia religio”.

Resta valido anche per noi oggi e deve sempre più rafforzarsi per il futuro l’obiettivo fondamentale che ha ispirato e guidato l’opera dei pionieri di questo Ateneo. Esso trova il suo fondamento e la sua sintesi nelle parole di San Paolo ai Colossesi: «strettamente congiunti nell'amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,2-3).

Di questo era talmente convinto P. Gemelli che nel numero monografico della Rivista “Vita e Pensiero” uscito in concomitanza con l’inaugurazione dell’Ateneo avvenuta il 7 dicembre del 1921 scriveva: «l'Università Cattolica del Sacro Cuore è uscita dal Suo Cuore, così come egli l'ha voluta. Ciò che vi è di meno buono lo abbiamo messo noi. Ed è così che il sogno è divenuto realtà» (VII, [101], 12/1921, p. 701). E il nostro auspicio, nel contesto del centenario, è che questa grande realtà non smetta di sognare secondo i disegni del Sacro Cuore. In modo particolare ci affidiamo ad Armida Barelli, che sarà presto beata, perché continui ad ispirare e sostenere il cammino della nostra comunità accademica. Amen

Un articolo di

Mons. Claudio Giuliodori

Mons. Claudio Giuliodori

Assistente Ecclesiastico Generale

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti