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Roberto Rebora, “Saper dire: cielo”

17 ottobre 2022

Roberto Rebora, “Saper dire: cielo”

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Dal 2018, l’“Archivio della letteratura cattolica e degli scrittori in ricerca” costituito all’interno del Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita” dell’Università Cattolica di Milano, custodisce libri, autografi e carte inedite del poeta, scrittore e critico teatrale Roberto Rebora (Milano, 1910-1992). Attingendo a questi materiali preziosi, sono già state elaborate e discusse, sotto la guida della dottoressa Lucia Geremia, conservatrice del Fondo Rebora, nove tesi di laurea. Oggi, a trent’anni dalla morte, dedichiamo a questo maestro in ombra, schivo come pochi altri, una giornata di studi, la prima in assoluto che gli sia mai stata riservata.

Quando aveva ancora due soli libri di poesia all’attivo, Roberto Rebora fu accolto da Luciano Anceschi, con Vittorio Sereni, Luciano Erba, Renzo Modesti, Giorgio Orelli e Nelo Risi, nella celebre antologia Linea lombarda, pubblicata nel 1952. Ma diciamo subito che questa collocazione, anche se ne accreditò la fama, non gli fa piena giustizia. Come ha ricordato, infatti, Carlo Bo, dandogli l’estremo saluto dalle colonne del «Corriere della Sera», Rebora è stato «il più puro dei poeti» italiani del Novecento, coltivando «nella più assoluta solitudine e in perfetto silenzio la sua vocazione», «senza confondersi mai con nessun gruppo o con qualche scuola». 

Fu poeta, dunque, anzitutto, come lo zio Clemente, al quale dedicò, nel 1986, un toccante ricordo, Al tempo che la vita era inesplosa. Esordì presso Guanda, nel 1940, con la raccolta Misure, cui seguì, nel 1950, Dieci anni, dove confluirono, fra l’altro, le liriche composte durante la seconda guerra mondiale e l’internamento nei lager nazisti. Tutti gli altri libri di poesia (Il verbo essere, 1965; Non altro, 1977; Per il momento, 1983; Parole cose, 1987; Non ancora, 1989; Fra poco, 1991) uscirono per Scheiwiller. L’intera produzione poetica di Roberto Rebora, rimasta a lungo dispersa e difficilmente fruibile, è stata finalmente riunita, l’anno scorso, in un unico volume di Poesie (1932-1991), a cura di Amedeo Anelli, edito da Mimesis.

Roberto Rebora praticò, meno assiduamente, magari, ma con risultati altrettanto pregevoli, anche la prosa testimoniale e narrativa, legata soprattutto alla durissima esperienza concentrazionaria, quando, dopo l’8 settembre, essendosi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, fu internato nei lager nazisti con Giovannino Guareschi, Giuseppe Lazzati ed Enzo Paci. In particolare, le tre storie raccontate nell’inedito Itinerario, studiate a fondo dall'alumna dell'Università Cattolica Elisabetta Fumagalli, sono un autentico capolavoro da scoprire, non sfigurando nemmeno davanti a un’opera paradigmatica come Se questo è un uomo di Primo Levi.

Roberto Rebora fu anche traduttore (Mauriac, Gide e Beckett fra gli altri), saggista ed esperto di teatro. Collaborò al «Corriere del Ticino» e a importanti riviste di settore, come «Sipario» e «Rivista Italiana di Drammaturgia». Diresse anche, per qualche tempo, con Paolo Grassi e Ruggero Jacobbi, la Scuola d’arte drammatica di Milano.

Tutti questi aspetti della vicenda biografica e del lascito culturale, letterario e spirituale di Rebora verranno messi in debita luce nei vari interventi che si susseguiranno durante la giornata. Numerosi gli interventi al convegno: Amedeo Anelli, Salvatore Ritrovato, Giuseppe Langella, Roberta Carpani, Lucia Geremia, Sabrina Fava, Maddalena Baschirotto, Elisabetta Fumagalli e Lidia Verdesca, accompagnate dalle testimonianze del poeta Guido Oldani e del giornalista Piero Lotito. Saranno letti, inoltre, da Luciano Pagetti, diversi testi di Roberto Rebora, poetici e non solo, e in chiusura verrà proiettata una videointervista a Giulia Pini, amica e musa ispiratrice del poeta. 


Due estratti dall’inedito Itinerario

 

«Non potevamo sottrarci al fatto enorme che in quel momento ci faceva partecipi di un’enorme crisi dell’uomo. Sapevamo sempre di avere nelle nostre possibilità l’arma di un atto indipendente: e questo ci manteneva in una continua tensione un po’ sospettosa di noi stessi. Rappresentavamo, muovendoci in uno sperso recinto spinato, qualcosa che apparteneva a una enorme crisi, politica in quanto era dell’uomo, ma assolutamente appartenente alla rettorica dello spirito libero che vive nelle ispirazioni e nel conseguente valore dei gesti. Ma il gesto andava penosamente e con fatica rinnovato ad ogni ora, poiché ad ogni ora le insidie agivano o sfioravano l’orecchio con una parola insinuante».

«Qualcosa ci accompagnava nei minuti di quelle giornate e non ci abbandonava mai. Entravano dal cancello i tedeschi della Gestapo e camminavano sicuri, sapevano sempre dove andare. Essi avevano trovato chi dava ordini: erano felici e bui. Non sapevano fermarsi. Avevano sacrificato il loro nome, la loro umanità. Rappresentavano una forza che li colpiva con il senso della lontananza. Erano fieri di rappresentare una forza lontana che, per mostrarsi fra di loro, li usava con ordini, riti ed oscuri significati. C’erano con loro uomini anziani con i capelli grigi. Camminavano un po’ curvi, dondolando esageratamente le braccia. Avevano gli occhi del colore dei capelli. Conoscevano l’altruismo e l’umanità della schiera: esclusivi e fanatici. Non decidevano mai, ubbidivano. O decidevano nel senso di quella ubbidienza che li annullava. Una fucilata rammentava il verbo del quale erano i predicatori, invitava gli uomini alla conversione. Spesso cantavano questi tedeschi ispirati e dediti. E allora io mi sentivo sgomento di fronte alla tentazione dell’uomo che cerca di santificarsi in una forma corrotta di perfezione».
 

Un articolo di

Giuseppe Langella

Giuseppe Langella

docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Università Cattolica

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