Il 31% dei lavoratori italiani si sente sempre (o spesso) stanco fin dal mattino all’idea di dover affrontare un altro giorno di lavoro, di nuovo il 31% è “emotivamente esaurito” a causa del suo impiego, il 28% vive in uno stato di stress o ansia eccessiva. Uno su cinque ha tutti questi sintomi insieme, rivelando un alto rischio di burn out.
Si tratta di alcuni risultati dell’HR Trends 2025 “Il benessere mentale come priorità per il lavoro del futuro”, la ricerca che esplora i trend in ambito risorse umane di Randstad Professional Leaders Search & Selection, linea di business specializzata nella ricerca e selezione di middle & senior management, realizzata in collaborazione con l’Alta Scuola di Psicologia Agostino Gemelli (ASAG) dell’Università Cattolica. Un’indagine quali-quantitativa condotta su un campione di oltre 355 responsabili risorse umane di imprese italiane e 563 lavoratori, che quest’anno ha messo a confronto le loro opinioni sul tema del benessere mentale.
«Nelle organizzazioni il benessere mentale, le relazioni tra colleghi e la formazione sono ormai riconosciuti come elementi cruciali – afferma Caterina Gozzoli, professoressa di Psicologia della convivenza socio-organizzativa dell’Università Cattolica –. Eppure, la ricerca evidenzia uno scollamento tra quanto le funzioni HR delle aziende dichiarano di aver messo in atto per la qualità della vita organizzativa e quanto i professionisti percepiscono (ansia, senso di esclusione, mancanza di pratiche strutturate a sostegno della collaborazione tra colleghi)».
Dall’indagine emergono, inoltre, problemi di coinvolgimento e difficoltà a far sentire la propria voce in azienda: pochi (il 25%) si sentono parte di un gruppo di lavoro aperto, ancora meno (20%) si sentono capiti e accettati e sempre solo il 20% pensa di avere controllo sul suo futuro nell'organizzazione. Tra i lavoratori italiani il livello di malessere aumenta ancora e supera il livello di guardia: oggi ben 7 su 10 chiedono che le aziende si preoccupino del loro benessere mentale, non solo in ambito lavorativo, ma anche personale. Il tema è sotto la lente degli HR: il 77% delle aziende ci presta almeno in parte attenzione, ma concretamente solo meno della metà (il 45% del totale) ha attivato qualche progetto o strumento per il benessere mentale dei dipendenti. Eppure, chi ha realizzato interventi ha riscontrato effetti positivi, soprattutto sul senso di appartenenza all'azienda (nell’88% dei casi), la qualità del lavoro (85%), la motivazione e produttività (85%), ma anche sulla fidelizzazione delle persone (81%) e l'immagine aziendale (81%).
I programmi sono i più diversi: iniziative di welfare, supporto psicologico, informazione e sensibilizzazione, consulenze con esperti e specialisti, palestre aziendali, menù salutari. Ma anche orari flessibili e smart working, riconoscimenti economici, attività di team building, eventi di aggregazione, attività di volontariato aziendale, app aziendali per creare gruppi e lanciare sfide nello sport, ruoli di Chief Happiness Officer, incontri allo stadio con allenatori sportivi per migliorare il lavoro di squadra, corsi di judo per imparare a gestire i conflitti, corsi di improvvisazione teatrale per migliorare le relazioni tra colleghi, il coro aziendale per stimolare lo spirito di appartenenza e il divertimento.
A questo proposito, i lavoratori si mostrano molto interessati a ottenere formazione sul benessere mentale (la vorrebbe l’86%), un interesse ampiamente sottostimato dagli HR. I direttori del personale stanno aumentando gli investimenti formativi nel 64% delle aziende e progettano sempre più attività anche con finalità ‘sociali’ per i dipendenti, come favorire la conoscenza tra le persone, rafforzare la motivazione, creare ambienti positivi e stimolanti.
In aiuto del benessere mentale, evidenzia la ricerca, oggi è arrivata l’intelligenza artificiale. L’AI ha un impatto generalmente positivo sul benessere dei lavoratori (per il 62% degli HR e 65% dei lavoratori), sebbene più di un terzo degli intervistati lo ritenga negativo. Nelle aziende in cui è stata introdotta ha avuto un impatto positivo in 6 casi su 10, soprattutto riducendo attività ripetitive e poco gratificanti, fornendo un aiuto immediato con assistenti virtuali, limitando carichi di lavoro e stress. Anche se un terzo dei lavoratori denuncia un impatto negativo, in particolare per un calo del “senso di utilità”, per l’incertezza lavorativa e la riduzione della qualità della formazione.
«L’intelligenza artificiale, che per gli HR è ormai un passaggio obbligato, da molti lavoratori è vista con curiosità e timore perchè può alleggerire i carichi e ridurre lo stress, ma rischia di minare il senso di utilità se non accompagnata da percorsi formativi – conferma Gozzoli –. L’organizzazione si gioca dunque la propria credibilità nella capacità di proporre e monitorare politiche e azioni entro una strategia chiara e condivisa in cui il benessere, la colleganza e la crescita non restino slogan o pezzi sconnessi ma diventino ingredienti tangibili per il miglioramento professionale ed organizzativo».
Circa metà delle aziende che hanno introdotto l’AI (il 49% del totale, in crescita rispetto al 36% dello scorso anno) la usa nei dipartimenti HR, il 24% del totale (l’anno scorso era l’8%). Nelle risorse umane in larga parte è usata per la redazione di testi tecnici (nell’80% delle aziende), poi per automatizzare procedure amministrative (26%), screening CV (22%), analisi retribuzioni (16%), analisi della cultura e clima (16%), analisi delle prestazioni (14,5%). Le principali difficoltà sono la mancanza di competenze necessarie a gestirla (60%) e la preoccupazione sulla sicurezza e protezione di dati (50%).
C’è accordo tra HR e lavoratori sul fatto che nei prossimi 5 anni l’AI avrà il maggiore impatto positivo soprattutto su attività soggette a forte regolamentazione legale e su processi decisionali complessi. Su una cosa però non sono d’accordo: per gli HR nella gestione delle persone e delle relazioni umane l’impatto sarà prevalentemente positivo, per i lavoratori negativo. Per tutti, non sono delegabili in alcun modo all’AI alcune attività umane: quelle ad alta componente emotiva, la leadership e negoziazione, la gestione delle persone e le relazioni, la creatività artistica e culturale.
Infine, rispetto al tema della formazione secondo gli HR italiani circa due terzi delle aziende (64%) stanno aumentando gli investimenti in formazione; per i lavoratori sono molti di meno, appena il 26%. Gli obiettivi delle attività di formazione sono soprattutto quelli di sviluppare soft skills (per il 72% degli HR), sviluppare hard skills (61%), preparare ai cambiamenti aziendali e tecnologici (56%), rafforzare il senso di appartenenza e il coinvolgimento dei dipendenti /52%), favorire la collaborazione e lo scambio di conoscenze tra colleghi (45%).
Il 68% degli HR pensa che nella sua azienda oggi sia rilevante la formazione sul benessere mentale, ma i lavoratori non sono d’accordo: lo è solo nel 39% dei casi. E in questo ambito i Direttori personale sottostimano l’interesse dei dipendenti per la formazione: pensano sia rilevante solo il 14% di loro, invece, lo ritiene il 39% dei lavoratori. Un'ulteriore conferma dell’importanza di investire in questo campo.
Tutti i dati della ricerca sono disponibili qui.
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