NEWS | Milano

I Centri di Ateneo chiamati al dialogo interdisciplinare

18 dicembre 2024

I Centri di Ateneo chiamati al dialogo interdisciplinare

Condividi su:


“A ciascuno il suo”: è un titolo significativamente evocativo quello scelto dai quattro Centri d’Ateneo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per dare vita a una collaborazione ufficiale che, dall’inizio della loro istituzione, avvenuta nell’anno accademico 2006/2007, per la prima volta li ha riuniti martedì 3 dicembre per confrontarsi, ciascuno appunto dalla propria prospettiva disciplinare, su una questione eticamente rilevante per l’università e la società tutta: la giustizia. «L’intento di dialogare ed entrare a fondo su temi radicali per la nostra epoca, oltre a rappresentare il carattere identitario del nostro Ateneo, costituisce un passo ulteriore nella vita dei Centri d’Ateneo», ha esordito il rettore Elena Beccalli rivolgendosi ai quattro direttori: Marco Caselli, del Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale (CeSI), Massimo Antonelli, del Centro di Ateneo di Bioetica e Scienze della Vita, Simona Beretta, del Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa, Camillo Regalia, del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia. «Un’occasione questa per promuovere ulteriormente e divulgare l’attività da essi svolta a beneficio della società e della Chiesa italiana». Non a caso, ha osservato l’assistente ecclesiastico generale monsignor Claudio Giuliodori, sono un «unicum» nel panorama nazionale: «Uniscono il patrimonio dell’Ateneo fatto di competenze e ricerca scientifica con le istanze, le sollecitazioni e le urgenze che arrivano dalla missione della Chiesa e dall’attenzione ad alcune frontiere particolarmente importanti».

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

Condividi su:

 

 

E la giustizia, che di per sé è un tema trasversale, ne è la riprova. Così com’è emerso chiaramente dalle quattro conversazioni che i direttori hanno intavolato con prestigiosi interlocutori rappresentativi delle loro aree di riferimento. Basti considerare il forte nesso con la cooperazione internazionale allo sviluppo che trova la sua principale «ragion d’essere nell’ingiustizia più grande del nostro pianeta, ovvero lo scandalo di milioni di persone che ancora oggi vivono nella povertà e nella sofferenza in un mondo che invece è ricco di risorse per garantire una vita dignitosa a tutte le persone». L’ha spiegato bene il professor Marco Caselli che, prendendo la parola, ha ribadito il senso profondo del verbo “cooperare”, ricordandone il duplice orientamento che lo caratterizza: ricerca della giustizia e interesse. Come far coesistere queste due anime e soprattutto «quanto la ricerca della giustizia orienta gli attori della cooperazione nelle loro azioni?», ha chiesto a Ivana Borsotto, presidente Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv).


«La cooperazione sta vivendo momenti avversi nel senso che siamo percepiti dalla maggioranza come una cosa buona e giusta ma anche come un lusso che non ci possiamo più permettere, perché ci sono tante povertà qui. Purtroppo, la narrazione del prima il noi e poi gli altri sta avendo successo», ha dichiarato Borsotto. Eppure, «il rimando che abbiamo dalle 97 Ong presenti in 80 paesi è di un peggioramento della condizione dei poveri nel mondo». Alcuni numeri rendono l’idea: 828 milioni di persone soffrono la fame; un bambino su quattro nei paesi in via di sviluppo non va scuola, due miliardi di individui non hanno acqua potabile, un quinto della popolazione mondiale non ha elettricità. «Chi fa cooperazione lo fa avendo come punto di riferimento la dichiarazione universale dei diritti umani, gli obiettivi di sviluppo sostenibile e la nostra Costituzione. E lo fa in modo tale che i progetti diventino politiche locali, trasformando la grammatica dei diritti in pratica quotidiana». La grande scommessa di tenere insieme giustizia e interesse sta innanzitutto nel fare sistema, in secondo luogo nel riconoscimento dell’altro, superando la cifra di questo tempo, alimentata dalla «paura per il futuro e per un mondo da cui difendersi».

Coprogettare, quindi, è la parola d’ordine. Anche in ambito sanitario. Ne è convinto Americo Cicchetti, direttore generale della Programmazione al Ministero della Salute, interpellato sul tema dal professor Massimo Antonelli. «Mi trovo in una situazione in cui le cose che ho studiato le sto attuando», ha detto Cicchetti, facendo riferimento alla sua esperienza di docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove ha ricoperto anche il ruolo di direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (Altems). Se guardiamo ai paesi sviluppati quello che imperversa è la «disuguaglianza nell’accesso alle cure assistenziali», considerato che negli Stati Uniti 30 milioni di persone non sono dotate di assicurazione sanitaria e mancano di cure primarie. Non è solo una «questione di soldi e di quante risorse mettiamo nel sistema ma il modello che ci scegliamo». In Italia i passi giusti sono stati compiuti con la scelta nel 1978 di un sistema sanitario che punta all’uguaglianza. Tuttavia, le differenze persistono e sono evidenti: tra le regioni del Nord più performanti rispetto a quelle del Sud e le difficoltà di accesso alle cure tra le aree interne in confronto alle metropolitane. Che cosa può fare il sistema sanitario? «L’SSN non dà tutto a tutti», ha avvertito Cicchetti. «Le richieste devono essere vagliate», con regole robuste capaci di indentificare i bisogni reali e fare scelte giuste.

Ma quando si parla di vita umana il legame della giustizia con l’amore e la caritas è imprescindibile. A chiamare in gioco quest’aspetto è stata Simona Beretta, confrontandosi con Silvano Petrosino, direttore dell’Archivio “Julien Ries” per l’antropologia simbolica. «L’uomo non può fare a meno di misurare e calcolare», visto che lo stesso temine ratio vuol dire misura, ha detto il filosofo. Il vero punto è capire come si misura l’uomo. Certo, l’economico riguarda l’uomo in quanto tale. Secondo Sartre, per esempio, l’esperienza che facciamo dell’essere è attraverso l’avere. La contabilità dunque, pur se essenziale, ha in sé un rischio: che i conti non tornano per definizione. La giustizia, allora, è una «parola che ha che fare con l’impossibile» poiché, nella pratica, senza misericordia, prima o poi si trasforma in vendetta.


Ed è qui allora che si avverte la necessità della relazione, del prendersi cura dell’altro. A spostare l’attenzione su questo tema è stato il dialogo tra Camillo Regalia, direttore del Centro di Ateneo Studi e Ricerca sulla Famiglia, ed Eugenia Scabini, professoressa emerita di Psicologia sociale. Secondo il professor Regalia - che ha fatto riferimento al neuroscienziato Vittorio Gallese secondo cui anche dal punto di vista neurofisiologico siamo cablati per connetterci con l’altro - ciò che caratterizza l’essere umano è la relazione. «Le persone esistono in quanto appartengono a una storia famigliare». Del resto, ha precisato la professoressa Scabini, «noi siamo esseri generati quindi il rimando all’altro è nella stessa definizioni di noi». Come si connette tutto questo con il tema della giustizia? Col fatto che la relazione ha bisogno di cura e che la famiglia, in quanto tale, può essere il luogo in cui ridare speranza e fiducia ai legami, in cui le persone riescono o possono riuscire a ritrovarsi.

I dialoghi sono stati accompagnati dalla lettura drammatizzata di Caterina Paolinelli di alcuni brani estratti dal libro “Fine pena ora” di Elvio Fassone (Sellerio Editore).

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti