La percezione, fino a poco tempo fa, era che i movimenti jihadisti non esistessero più. Si trattava in realtà di una distorsione ottica, frutto del sostanziale disinteresse per un continente, l’Africa, in cui il fenomeno in quest’ultimo decennio ha conosciuto una crescita esponenziale. In ogni caso, i recentissimi sviluppi in Siria hanno contribuito a cancellare questa illusione, restituendo al tema una centralità che rischia di diventare persino eccessiva. Al netto delle sue altalenanti fortune mediatiche, il jihadismo infatti è un fenomeno presente, accanto ad altri, nel mondo a maggioranza musulmana, che tende a riaffacciarsi in ogni teatro di crisi. E continuerà a farlo finché non saranno risolti alcuni nodi sia strutturali, legati alla natura disfunzionale di molti regimi, sia simbolici, tra cui spicca in particolare la questione palestinese.
Partendo da questa convinzione di fondo, il progetto di ricerca NIJAR (PRIN 2022 PNNR) indaga la galassia dei gruppi jihadisti armati attraverso una lente insolita: i negoziati. Insolita, ma in realtà efficace, perché il primo dato con cui fare i conti, con realismo, è che i casi di negoziato con formazioni jihadiste si sono moltiplicati negli ultimi decenni. Come sono giustificati sia da parte degli attori statali, per i quali dovrebbe vigere il principio del “non si tratta con i terroristi”, sia da parte dei jihadisti stessi, che qualificano come regimi apostati non soltanto i governi occidentali o quelli contro cui hanno imbracciato le armi, ma anche la Turchia di Erdoğan? È stato questo il tema del seminario “If they offer you peace…” (Q: 4:90). Negotiations in Jihadi Thought and Praxis, che si è tenuto in Aseri lo scorso 12 dicembre.
Dopo l’introduzione di Riccardo Redaelli, direttore del CRiSSMA, che ha ricordato le intuizioni profetiche di Giovanni XXIII nella Pacem in terris, si è partiti subito con un fuori programma, il collegamento di Aymenn Al-Tamimi, noto analista di cose siriane – suo è il canale Substack Aymenn’s Monstrous Publications, una delle principali fonti documentarie sul conflitto in corso. Al-Tamimi ha sottolineato in particolare l’importanza della tregua conclusa nel 2020 tra Hay’at Tahrīr al-Shām, all’epoca asserragliata nella regione di Idlib nel nord della Siria, e il regime di Asad, che mirava a concentrare in questa sacca di territorio tutti i jihadisti attraverso una serie di accordi di “pacificazione” locali. A posteriori si è trattato di un calcolo errato per il regime e per il suo padrino russo. Che ne sarà ora della Siria? Tutto dipenderà dalla capacità di tenere in equilibrio due istanze contrapposte: da un lato un sentimento nazionale forte, che risale all’epoca ottomana e che in questi giorni si esprime nello slogan “la Siria ai siriani”; e dall’altro un reticolo di identità locali, religiose, culturali ed etniche, che la matrice jihadista da cui HTS proviene ha oggettive difficoltà a integrare a livello ideologico, pur percependo la necessità pragmatica di una tale mossa.
In un clamoroso caso di eterogenesi dei fini, ad affondare Asad è stato un altro membro del cosiddetto Asse della Resistenza, Hamas. All’utilizzo del concetto di hudna (tregua) nell’ideologia e prassi del movimento islamista palestinese è stato dedicato l’intervento di Joas Wagemakers (Utrecht), che a Hamas ha consacrato il suo ultimo libro, dopo aver condotto studi fondamentali sull’ideologo jihadista al-Maqdisi e sui Fratelli Musulmani in Giordania. Wagemakers ha mostrato come nel corso dei suoi quasi quattro decenni di esistenza Hamas abbia progressivamente ampliato il concetto di tregua fino ad arrivare molto vicino all’accettazione implicita di una soluzione a due Stati, prima che i massacri del 7 ottobre 2023 riaprissero il ciclo della violenza.
Sui negoziati condotti tra lo Stato Islamico e le tribù arabe sunnite in Iraq si è invece soffermato Andrea Plebani (Università Cattolica), esaminando in particolare la politica di IS volta a creare un “nucleo sunnita” tra Iraq e Siria e i casi, poco noti, dell’evacuazione dei combattenti jihadisti da Mosul e Raqqa.
Nel pomeriggio è toccato ad Alexander Thurston (Cincinnati, Usa) fare il punto sulla situazione, piuttosto fosca, del Sahel, una regione in cui l’insorgenza jihadista non accenna a diminuire d’intensità. I numerosi appelli al “dialogo nazionale” sono finora restati lettera morta anche a causa della vaghezza del termine. In effetti, uno degli elementi che è emerso con chiarezza dai vari casi di studio è che i negoziati più efficaci sono quelli con una portata modesta, in cui le parti si accordano su obbiettivi limitati come lo scambio di prigionieri, l’accesso di aiuto umanitario in alcune regioni o un cessate il fuoco temporaneo, mentre molto più difficile risulta portare il discorso a livello politico, anche per la povertà e la genericità delle categorie che sono invocate a sostegno del dialogo.
Il ruolo degli ulama, gli esperti di scienze religiose, nel combattere l’estremismo è stato invece sottolineato da Jakob Skovgaard-Petersen (Copenhagen), che si è soffermato in particolare sul caso dell’Egitto. Mentre le tre principali istituzioni islamiche del Paese, la moschea-università di al-Azhar, il mufti della Repubblica e il ministro degli Affari religiosi, hanno opinioni diverse su numerose questioni, si ritrovano unite nel rifiuto dell’ideologia jihadista. Si tratta di una carta da non sottovalutare.
Infine, Antonio Giustozzi (Royal United Services Institute) ha messo a disposizione la sua pluridecennale esperienza afghana per illustrare le ragioni del fallimento dei negoziati con i talebani, a cui il governo di Kabul si è presentato diviso e frammentato. La strategia del cooptare e dividere infatti non è prerogativa dei soli attori statali e rappresentarsi i movimenti jihadisti come politicamente sprovveduti costituisce un grave errore.
L’orizzonte in cui si è mosso il convegno non è quello della pace, ma della tregua. Uno spazio interstiziale (il pensiero corre all’omonimo libro di Primo Levi), che, nella sua fragilità, rimane tuttavia preferibile rispetto alla guerra perché capace di dilatarsi nel tempo e avviare processi di riconciliazione effettiva.
Avviato un anno fa da Francesco Strazzari (P.I., Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) e Martino Diez (Università Cattolica), NIJAR è un esperimento che cerca di far interloquire due mondi diversi, politologi e islamologi, nella convinzione che i fenomeni senza categorie analitiche desunte dalla tradizione islamica restano ciechi, ma lo studio di queste categorie senza riferimento alla loro declinazione sul terreno è vuoto. In questo senso NIJAR vuole anche essere un modo per accendere i riflettori su una realtà che tocca profondamente la sponda sud del Mediterraneo e il continente africano. E quindi, di riflesso, anche il nostro Paese.