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L’esercizio del “giusto giudizio”

16 aprile 2024

L’esercizio del “giusto giudizio”

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«Una parte della nostra funzione di giuristi ha a che fare con situazioni di sofferenza. Questa condizione è ineliminabile, ma si deve imparare a gestire». Con queste parole, il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Franco Anelli, ha aperto il convegno conclusivo del XIV Ciclo seminariale di “Giustizia e letteratura”, dal titolo "L’esercizio del giusto giudizio. Idea di responsabilità e fondamenti della giustizia nell’anniversario manzoniano". In un’aula gremita, ha poi continuato: «Sofferenza del vivere individuale che si ritrova anche nel vivere associato. I giuristi, nel loro operato, non hanno a che fare con la felicità, ma si prendono sulle spalle un pezzetto della “croce della società” e cercano di renderlo meno duro. Anche per questo, non dobbiamo pensare che la nostra posizione ci metta nelle condizioni di avere qualcosa da dire perché abbiamo idee migliori degli altri, ma perché ci sforziamo di ragionarci sopra». Ragionamenti guidati da competenze teoriche e sensibilità applicative, elementi necessari per l’esercizio della professione.

Gli fa eco Stefano Solimano, preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: «Un giurista cerca di “riparare” il mondo, trasformarlo e agire per una giustizia migliore». Un miglioramento del sistema giuridico in un contesto socioculturale nel quale si assiste a un dilagare di processi “sommari” e al declino della capacità di giudizio, condizionata, purtroppo, da molti fattori esterni.

Giudizio che, secondo Gabrio Forti, direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia penale, deve essere esercitato anche sulla pena: «Credo sia lecito chiedersi se il bisogno di pena, per lo più eccessivo nella nostra società, possa nascere da un’assenza morale o sociale della capacità di giudizio e dell’idea di responsabilità».

Già Manzoni si domandava che cosa rendesse giusto l’esercizio del giudizio e in quale rapporto esso si ponesse rispetto all’individuazione delle cause della condotta umana. E, nel contesto odierno, considerando la giustizia penale rappresentata dai media, questi quesiti si riattualizzano: la mediatizzazione dei processi non fa altro che spostare l’attenzione del pubblico su elementi che niente hanno a che fare con la giustizia e con la comprensione delle cause di un determinato comportamento.

Problema su cui si concentra anche Aldo Grasso, critico e docente di storia della televisione presso l'Università Cattolica. «Spesso, nel contatto con i mezzi di comunicazione, le forme drammaturgiche del processo prevalgono sulle altre leggi. La presenza di telecamere rende i protagonisti dei procedimenti giudiziari degli attori. Si passa dalla concezione di processo pubblico a pubblico del processo, attraverso un vero e proprio slittamento semantico. Il mio più grande timore è che i processi televisivi acquisiscano una forza anche superiore a quella del tribunale ordinario».

Luigi Ferrarella, giornalista di cronaca giudiziaria del Corriere della Sera, aggiunge: «È già successo che i giudici confermassero come la mediatizzazione avesse avuto un peso nella loro decisione. Una pressione mediatica tale, che si traduce in un condizionamento psicologico».

Un pericolo che si scontra con la funzione educativa che deve avere l’informazione. «Bisogna evitare di creare uno iato tra l’attività giudiziaria e le aspettative decisionali delle persone che seguono il processo attraverso i media. Il giornalista dovrebbe riuscire a restringere questa forbice, rifacendosi ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico». Così il Presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia.

Da segnalare, nella seconda giornata del convegno, anche l’intervento di Silvano Petrosino, filosofo e professore ordinario di Teorie della Comunicazione e Antropologia religiosa e media del nostro Ateneo. Secondo la sua visione «l’uomo è per natura calcolante e giudicante, perché fa esperienza del finito e questo lo porta a misurare qualsiasi cosa». Il problema, semmai, è dato dal fatto che, nel giudizio umano, l’attrazione per la pena rischia di prendere il sopravvento sulla ricerca della verità: «Se io soffro, qualcuno deve averne per forza la colpa. È la ricerca compulsiva di una colpa e di una pena, non si riesce a stare di fronte alla sofferenza solo in quanto tale. Nietzsche dice che, quindi, quella che viene chiamata giustizia in realtà è vendetta». Il professore conclude il suo discorso rispondendo ad un quesito: è possibile, giudicare senza vendicarsi? «Come sosteneva Nietzsche, esiste una sola via d’uscita: la grazia».

Un articolo di

Luca Baldini e Fabio Baldonieri

Scuola di Giornalismo

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