«In Europa siamo tornati di fronte a una guerra. E questo, al di là dell'amarezza, ci ricorda come nulla è irreversibile. Niente è scontato, specie se viene meno il nostro impegno. Tutte le conquiste sono reversibili. E forse è un bene perdere questa spocchia, più o meno consapevole, che abbiamo noi europei».
Con questo monito, il direttore dell’Alta Scuola in Economia e relazioni internazionali Vittorio Emanuele Parsi, ha introdotto la tavola rotonda “Quali prospettive e speranze per il popolo afghano dopo il ritiro militare occidentale?” che ha inaugurato, mercoledì 2 marzo, la mostra fotografica ospitata dall’Ateneo (aperta fino al 25 marzo presso il Cortile d’Onore della sede milanese di largo Gemelli) dedicata all’avventuroso viaggio intrapreso nel 1939 dalle giornaliste svizzere Ella Maillart e Annemarie Schwarzenbach da Ginevra a Kabul. Un’occasione per parlare ancora di Afghanistan, per non abbassare i riflettori su un Paese martoriato da decenni di guerra.
«Fuori dall'Europa – ha ricordato il prof. Parsi - noi occidentali non abbiamo la coscienza così pulita. I principi della libertà e dell'uguaglianza devono essere estesi in ogni parte del mondo. I regimi politici sono una cosa i popoli sono un'altra. È sempre utile ricordare il vecchio adagio secondo cui fino a quando l'ultimo, il più fragile, non è al sicuro, non lo è nessuno».
E allora ecco che, come ha ricordato nei suoi saluti Sabrina Dellafior, Console generale di Svizzera a Milano, è molto importante, soprattutto adesso, un momento di riflessione sulla situazione attuale del popolo afghano».
Gianfranco Petruzzella, Ministro Plenipotenziario e Inviato Speciale per l’Afghanistan del Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale (MAECI), intervenuto in collegamento, ha ricordato l’impegno dell’Italia sul territorio dopo il ritorno al potere dei Talebani nell’estate 2021: «La macchina della solidarietà internazionale si è subito attivata per evitare che il Paese possa tornare a essere una base per il terrorismo internazionale perché la fine delle attività militari non deve coincidere con la fine dell'impegno».