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Alzheimer, l’invecchiamento globale triplicherà l’incidenza

21 settembre 2022

Alzheimer, l’invecchiamento globale triplicherà l’incidenza

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Il 21 settembre ricorre la Giornata Mondiale per l’Alzheimer, un momento istituito per creare consapevolezza riguardo una malattia sempre più diffusa e finalizzata a diffondere un messaggio di prevenzione, a fronte dell’aumento dei casi nella popolazione mondiale. Con Davide Quaranta, neurologo del Dipartimento di Neuroscienze e della Clinica della memoria della Facoltà di Medicina del nostro Ateneo facciamo il punto sulla malattia neurodegenerativa più diffusa: quali sono le cause, come si cura e quali sono le prospettive della ricerca scientifica.

La malattia è in crescente aumento nella popolazione mondiale, qual è la sua incidenza?
«La Malattia di Alzheimer è la più comune forma di deterioramento cognitivo, rappresentando circa il 60% di tutte le forme di demenza. L’incidenza della malattia aumenta con l’età, ed evidentemente il progressivo invecchiamento della popolazione, per lo meno nei paesi occidentali, porterà ad un parallelo incremento del numero di pazienti affetti da questa malattia. Alzheimer’s Disease International ha stimato nel 2018 una prevalenza mondiale di circa 50 milioni di pazienti affetti, numeri che dovrebbero triplicare entro il 2050. Nei paesi cosiddetti ad alto reddito, tuttavia, nel corso degli ultimi anni si sta assistendo ad un declino dell’incidenza (ovvero delle nuove diagnosi su base annua) della malattia. Questo dato è verosimilmente da attribuire al controllo di fattori di rischio che favoriscono lo sviluppo della patologia.

Qualunque discorso epidemiologico si complica se prendiamo in considerazione quella fascia di pazienti che, affetto da Malattia di Alzheimer dal punto di vista neuropatologico, non ne ha ancora presentato i sitnomi classici. Si stima infatti che, tra l’esordio del danno neuronale e la comparsa dei sintomi, possano trascorre anche 15 o 20 anni. Tenuto conto di questo, si può stimare che in Italia, al momento, circa 800mila persone siano affette da Malattia di Alzheimer».

Quali sono i maggiori fattori di rischio e le cause principali?
«La Malattia di Alzheimer è caratterizzata da una progressione di alterazioni che coinvolgono all’inizio le sinapsi, cioè i punti di contatto tra neuroni a livello dei quali avvengono la trasmissione e la ricezione delle informazioni, e poi determinano la morte neuronale. Dal punto di vista molecolare, questi effetti sono verosimilmente la conseguenza dell’effetto “tossico” di frammenti di proteina amiloide. Un’alterazione del metabolismo di questa proteina determina infatti un eccesso di produzione di peptide Beta1-42 che, soprattutto nella sua forma solubile, danneggia i neuroni, per poi accumularsi nelle placche amiloidi che rappresentano, insieme ai grovigli neurofibrillari (accumuli intraneuronali di proteina tau iperfosforilata), i principali marcatori neuropatologici della malattia. In casi molto rari, la comparsa della malattia è dovuta alla presenza di mutazioni in geni che codificano le proteine coinvolte nel processo di formazione dell’amiloide».

«Numerosi fattori possono influenzare o indirizzare questo processo. Alcuni di questi fattori non sono modificabili, come l’età o la presenza dell’allele epsilon4 del gene APOE, che codifica per una proteina trasportatrice di lipidi. Altri fattori di rischio si sovrappongono a quelli per le malattie cardiovascolari, come l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito e l’obesità, ed è proprio l’ottimizzazione del controllo di queste patologie che probabilmente sta determinando una riduzione dell’incidenza della Malattia di Alzheimer a cui accennavo in precedenza. Al di là dei fattori di natura squisitamente medica, esistono dei fattori di rischio legati alla storia personale e alle abitudini di vita delle persone. Mi riferisco, ad esempio, al dato ormai assodato di un incremento del rischio in soggetti di bassa scolarità, nei soggetti che conducono una vita sedentaria e poco stimolante dal punto di vista intellettivo e delle interazioni sociali. Il meccanismo principale di questo fenomeno è da ricercare nel fatto che un adeguato livello di stimolazione intellettuale favorisce lo sviluppo della cosiddetta “riserva cognitiva”, in concetto tuttora discusso, me che semplificando può essere descritto come l’insieme di competenze e conoscenze che forma una “linea di resistenza” rispetto alla comparsa dei sintomi cognitivi. Infine, un fattore di rischio che è emerso in modo chiaro nell’ultima decade è rappresentato dall’ipoacusia, molto comune nella popolazione senile, e potenzialmente correggibile».

In tema di ricerca scientifica, quali sono le novità e le principali linee di sviluppo?
«Le linee di ricerca che riguardano la Malattia di Alzheimer sono molteplici, e investono tutti gli aspetti della patologia, dai meccanismi molecolari, alla diagnosi, ai potenziali trattamenti. Nel nostro Centro, in particolare, ci interessiamo del ruolo dei biomarcatori ricavabili dal liquido cefalorachidiano, o anche dal sangue periferico, e dei loro rapporti con i profili cognitivi osservabili nei pazienti con Malattia di Alzheimer. Un altro aspetto molto rilevante è quello legato all’identificazione di marcatori neuropsicologici (cioè di danno cognitivo) che consentano di identificare precocemente i malati, nella prospettiva, in un prossimo futuro, di avere a disposizione dei trattamenti in grado di interrompere il danno cerebrale».

«A questo proposito, va segnalato che anche la ricerca farmacologica si sta sviluppando su numerosi fronti. Un approccio consolidato e ampiamente sperimentato, purtroppo con risultati contrastanti, prevede la prevenzione della formazione o la rimozione dell’amiloide dal tessuto cerebrale, ad esempio con la somministrazione di anticorpi monoclonali diretti contro forme specifiche del peptide dell’amiloide. Più recentemente, sono emerse possibilità legate alla modulazione dei fattori che influenzano la neurodegenerazione, quali l’infiammazione, lo stress ossidativo e le alterazioni del metabolismo glucidico. Va precisato, tuttavia, che al momento nessuno dei farmaci sperimentati ha dato prove di efficacia e soprattutto di rapporto rischi-benefici sufficienti a permetterne l’autorizzazione all’utilizzo sulla popolazione. La speranza è ovviamente che in un futuro prossimo uno o più farmaci possano raggiungere livelli di evidenza tali da consentirne l’utilizzo».

Esistono cure non farmacologiche per prevenire o rallentare lo sviluppo della malattia?
«Come si può intuire da quanto affermato in precedenza, esistono fattori, clinici e non, sui quali è possibile intervenire per ridurre il rischio di malattia. È ampiamente documentato come l’adeguato controllo dei fattori di rischio vascolare, come l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito, possa ridurre la probabilità di ammalarsi, o quantomeno posticipare in modo significativo – si parla di anni - l’esordio dei sintomi. Al di là degli aspetti più propriamente medici, una modifica delle abitudini di vita “a rischio” è senz’altro da consigliare. Mi riferisco soprattutto alla conduzione di una vita attiva, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista intellettuale. L’attività fisica moderata e costante si è dimostrata efficace nel ridurre il rischio di ammalarsi. Lo stesso effetto è stato riportato per il mantenimento dei contatti sociali e degli interessi intellettuali, in cui vi sia un impegno attivo e non stressante (e dunque l’attività lavorativa è esclusa!)».

Presso il Policlinico Gemelli è sorta la Clinica della memoria, quanto è importante rivolgersi a strutture come queste per avviare un percorso diagnostico, terapeutico e assistenziale in modo utile e tempestivo?
«L’intervento di centri specializzati nella diagnosi e nell’impostazione dei trattamenti è fondamentale. Le conoscenze relative alla Malattia di Alzheimer, e alle altre forme di deterioramento cognitivo, si fanno sempre più estese e complesse, come pure le metodiche di indagine, che coinvolgono la ricerca di biomarcatori, l’esecuzione di valutazioni neuropsicologiche avanzate, l’utilizzo di strumenti neurofisiologici e neuroradiologici di ultima generazione. Questo tipo di approccio, che è quello richiesto dall’attuale standard di cura, è possibile solo in centri che mantengano un alto livello di aggiornamento, anche attraverso la partecipazione a partnership internazionali».

«Al di là di questi aspetti “tecnici”, la presa in carico del malato di Alzheimer richiede una profonda conoscenza delle dinamiche personali e familiari, della messe di domande e preoccupazioni che arrivano in concomitanza con la diagnosi, dall’atteggiamento da tenere nei confronti degli aspetti comportamentali, alla gestione delle difficoltà concrete da fronteggiare nella vita quotidiana. Per finire, i centri specializzati possono anche impostare trattamenti non farmacologici, ad impronta riabilitativa, che nelle fasi iniziali della malattia si dimostrano efficaci per il contenimento dei sintomi. Questo insieme di elementi può essere ottenuto solo nel contesto di equipe multidisciplinari, che coinvolgano il neurologo, il geriatra, lo psicologo, il riabilitatore, e tutte le figure che possono affiancarsi nella gestione dei molteplici aspetti della malattia».

Un articolo di

Graziana Gabbianelli

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