Un brano che ha assunto una chiave centrale nell’incontro, citato più volte da ciascuno dei presenti, è stato Il testamento di Tito. Secondo Guido Bertagna, per esempio, si tratta di «una confessione spassionata e allora stesso tempo libera, un’ammissione quasi orgogliosa delle proprie colpe. In questo percorso Tito pone il suo dolore e le sue sofferenze come unità di misura contro ogni moralismo. Ciò che affascina di questa canzone è che canta di un percorso di liberazione dai propri risentimenti».
È stata poi la volta di Alessandro Provera, che ha riflettuto sul ruolo della città e degli ultimi: «Inoltrarsi nella Città vecchia significa abbandonare le ampie strade e immergersi nei vicoli tortuosi. Se si riesce a far questo, già abbiamo un cambiamento di sguardo: troviamo coloro che soffrono, gli ultimi e gli sconfitti. Sembra che in questi quartieri il sole del buon Dio non dia i suoi raggi, ed io mi sono chiesto se sia davvero così, credo che la regola per cercare di dare una risposta a questo quesito sia quella di cambiare occhi e mentalità, non giudicando, come dice De André, da buon borghese».
Per ultimo ha preso la parola Caruso, spiegando alcuni passaggi del suo libro e concentrandosi sul personaggio di Geordie come esempio della poetica di giustizia del Faber. «De André riprende una ballata della tradizione inglese del XVI secolo, recupera il testo ma ci aggiunge una quartina che, secondo me, racchiude il codice genetico di tutta la sua poetica sulla giustizia: “Né il cuore degli inglesi, né lo scettro del re, Geordie potran salvare; anche se piangeranno con te, la legge non può cambiare”. C’è uno scarto tra ciò che si prova nei confronti della donna e ciò che va fatto secondo la legge, De André ci suggerisce di accettare questo scarto e di abitarlo, di viverlo, facendoci attraversare dal dramma delle lacrime della fidanzata di Geordie pur sapendo che la legge va applicata. Perché abitare quello scarto vuol dire, forse, poter provare ad allargare le maglie della legge».