«Questo spettacolo consacra Gaber come protagonista della scena teatrale nazionale - ha ricordato Paolo Dal Bon, storico manager dell'artista, attualmente presidente della Fondazione Gaber - e che viene ricordato per la sua essenzialità. Sul palco in scena c'era solo lui e le canzoni partivano con basi registrate, l'obiettivo era quello di eliminare tutto ciò che non era strettamente necessario. Lo spettacolo, inoltre, segna l'appartenza di Gaber ai Movimenti degli anni '70. Tra gli ispiratori dell'opera vi furono infatti esponenti dell'anti-psichiatria come Laing e Cooper. In tal senso è altamente simbolica l'ultima replica, andata in scena all'Ospedale psichiatrico di Voghera, alla presenza di Franco Basaglia che aveva chiesto e ottenuto la presenza di un pubblico esterno».
Infatti, una delle chiavi di lettura dell'opera, è quello relativo al concetto dell'interezza, in cui, per l'appunto, sono centrali gli aspetti psicanalitici e psicologici. L'unione fra queste riflessioni e il cabaret, di stampo spiccatamente milanese - Gaber, anche all'apice della popolarità televisiva non aveva mai rinunciato a esibirsi nelle balere, dove trovava il rapporto diretto col pubblico - riusciva a creare una sintesi perfetta, leggera ma profonda.
«Prendete per esempio il brano "Quello che perde i pezzi" - ha ricordato Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo - in cui Gaber dice "Se una cosa non la usi, non funziona". Un’allusione a questo grande uso delle idee, del cervello e la conseguente mancanza di tutto il resto. Una situazione che si ribalterà, negli anni '80 con la moda delle palestre e dell'esteriorità fisica, in uno scenario opposto, ma valido ancora adesso. Tutto questo con una grande teatralità. Gaber voleva far esplodere l'adrenalina, era un performer di primo livello. Un pezzo del genere, se lo esegui solo con la chitarra, non dice niente. È il ritorno della corporeità».
Una svolta che, probabilmente, nasce anche da un episodio significativo. A raccontarlo è Lorenzo Luporini, nipote di Gaber nonché alumnus della Cattolica: «Mio nonno, che fino a quel momento era quello di Non arrossire, Porta Romana, Ciao ti dirò a un certo punto si accorge che la sua produzione non dialoga con un pubblico con cui vuole confrontarsi, quello dei giovani. Lo capisce in occasione di un incontro in Statale, a Milano, quando si presenta forte del suo successo, vestito bene e col macchinone, ma gli studenti, platealmente, lo ignorano. Quel giorno comprende che il mondo della contestazione non lo segue. E va in corto circuito. La nuova stagione arriva grazie all'incontro con un cestista e pittore viareggino, Sandro Luporini, che diventa la sua "metà artistica": dal dialogo tra queste due anime nasce, nel 1970, lo spettacolo "Il Signor G", che segna l'inizio del percorso teatrale di Gaber e la nascita di quello che verrà definito Teatro Canzone».
«È difficile far capire adesso la novità e la dirompenza del Teatro Canzone - ha aggiunto il professor Colombo - un’operazione a due dimensioni, che mise insieme per la prima volta due cose che, fino a quel momento, non stavano assieme, non in quel modo almeno: testo, canzone, musica e riflessione».
Ripercorsa la storia dello spettacolo, il dibattito, si è animato su come Gaber si sarebbe rapportato rispetto alla società attuale. «Non era certo un autore comodo - ha spiegato Colombo - quel che riteneva opportuno dire, lo diceva. Il rifiuto sistematico che Gaber faceva dello stereotipo oggi sarebbe difficilmente praticabile».
«Il pericolo - ha precisato Luporini - non è quel che non si può più dire ma la frammentazione del pensiero. Gaber, oggi non avrebbe particolari problemi nell'esprimersi ma potrebbe essere equivocato se, per esempio, una sua frase finisse, estrapolata dal contesto, su una card di Instagram».