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Far finta di esser sani, cinquant'anni dopo

15 maggio 2023

Far finta di esser sani, cinquant'anni dopo

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Correva l'anno 1973. Il mondo è colpito dalla crisi del petrolio che impone per la prima volta agli italiani la "domenica a piedi". In Cile un sanguinoso colpo di stato rovescia il presidente Salvador Allende e instaura una dittatura militare. A New York viene inaugurato un complesso che, suo malgrado, decenni dopo, diventerà il drammatico simbolo di un'epoca: il World Trade Center. Alla cerimonia degli Oscar trionfa Il Padrino che conquista tre statuette mentre in Italia, nelle sale, esce Amarcord di Federico Fellini. Dai juke box del Paese vanno per la maggiore Claudio Baglioni con "Questo piccolo grande amore", Lucio Battisti con "Il mio canto libero" e una provocatoria Patty Pravo con "Pazza idea".

In questo contesto storico e culturale, Giorgio Gaber, cantante e personaggio televisivo popolare e di successo va in scena con uno spettacolo destinato a lasciare un segno indelebile nella storia dello spettacolo e, più in generale, dell'intero mondo della cultura italiano: "Far finta di esser sani". In occasione dei suoi primi cinquant'anni, che peraltro coincidono con i vent'anni dalla scomparsa del Signor G, l'Università Cattolica, giovedì 11 maggio, ha ospitato una giornata di studi che ne ha ripercorso le origini e i principali spunti di riflessione, ancora oggi estremamente attuali. Un percorso che la Fondazione Gaber ha raccontato in un podcast "E pensare che c'era il pensiero", undici episodi in cui, attraverso la voce e le interviste dello stesso Gaber, si racconta la straordinaria carriera dell'artista milanese dagli esordi fino al ritiro dalle scene.
 


«Questo spettacolo consacra Gaber come protagonista della scena teatrale nazionale - ha ricordato Paolo Dal Bon, storico manager dell'artista, attualmente presidente della Fondazione Gaber - e che viene ricordato per la sua essenzialità. Sul palco in scena c'era solo lui e le canzoni partivano con basi registrate, l'obiettivo era quello di eliminare tutto ciò che non era strettamente necessario. Lo spettacolo, inoltre, segna l'appartenza di Gaber ai Movimenti degli anni '70. Tra gli ispiratori dell'opera vi furono infatti esponenti dell'anti-psichiatria come Laing e Cooper. In tal senso è altamente simbolica l'ultima replica, andata in scena all'Ospedale psichiatrico di Voghera, alla presenza di Franco Basaglia che aveva chiesto e ottenuto la presenza di un pubblico esterno».

Infatti, una delle chiavi di lettura dell'opera, è quello relativo al concetto dell'interezza, in cui, per l'appunto, sono centrali gli aspetti psicanalitici e psicologici. L'unione fra queste riflessioni e il cabaret, di stampo spiccatamente milanese - Gaber, anche all'apice della popolarità televisiva non aveva mai rinunciato a esibirsi nelle balere, dove trovava il rapporto diretto col pubblico - riusciva a creare una sintesi perfetta, leggera ma profonda.

«Prendete per esempio il brano "Quello che perde i pezzi" - ha ricordato Fausto Colombo, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo - in cui Gaber dice "Se una cosa non la usi, non funziona". Un’allusione a questo grande uso delle idee, del cervello e la conseguente mancanza di tutto il resto. Una situazione che si ribalterà, negli anni '80 con la moda delle palestre e dell'esteriorità fisica, in uno scenario opposto, ma valido ancora adesso. Tutto questo con una grande teatralità. Gaber voleva far esplodere l'adrenalina, era un performer di primo livello. Un pezzo del genere, se lo esegui solo con la chitarra, non dice niente. È il ritorno della corporeità».

Una svolta che, probabilmente, nasce anche da un episodio significativo. A raccontarlo è Lorenzo Luporini, nipote di Gaber nonché alumnus della Cattolica: «Mio nonno, che fino a quel momento era quello di Non arrossire, Porta Romana, Ciao ti dirò a un certo punto si accorge che la sua produzione non dialoga con un pubblico con cui vuole confrontarsi, quello dei giovani. Lo capisce in occasione di un incontro in Statale, a Milano, quando si presenta forte del suo successo, vestito bene e col macchinone, ma gli studenti, platealmente, lo ignorano. Quel giorno comprende che il mondo della contestazione non lo segue. E va in corto circuito. La nuova stagione arriva grazie all'incontro con un cestista e pittore viareggino, Sandro Luporini, che diventa la sua "metà artistica": dal dialogo tra queste due anime nasce, nel 1970, lo spettacolo "Il Signor G", che segna l'inizio del percorso teatrale di Gaber e la nascita di quello che verrà definito Teatro Canzone».

«È difficile far capire adesso la novità e la dirompenza del Teatro Canzone - ha aggiunto il professor Colombo - un’operazione a due dimensioni, che mise insieme per la prima volta due cose che, fino a quel momento, non stavano assieme, non in quel modo almeno: testo, canzone, musica e riflessione».

Ripercorsa la storia dello spettacolo, il dibattito, si è animato su come Gaber si sarebbe rapportato rispetto alla società attuale. «Non era certo un autore comodo - ha spiegato Colombo - quel che riteneva opportuno dire, lo diceva. Il rifiuto sistematico che Gaber faceva dello stereotipo oggi sarebbe difficilmente praticabile».

«Il pericolo - ha precisato Luporini - non è quel che non si può più dire ma la frammentazione del pensiero. Gaber, oggi non avrebbe particolari problemi nell'esprimersi ma potrebbe essere equivocato se, per esempio, una sua frase finisse, estrapolata dal contesto, su una card di Instagram».
 

Un articolo di

Luca Aprea

Luca Aprea

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