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Fashion Law, la sfida tra commercio online e offline

04 marzo 2021

Fashion Law, la sfida tra commercio online e offline

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Il Covid-19 ha maturato un’evidente accelerazione di una serie di cambiamenti già in corso nel settore della moda. Parliamo del ri-pensamento dei canali di vendita - con gli acquisti online che ad oggi hanno in buona parte sostituito le vendite del retail tradizionale - della ricerca di tutele del prodotto su scala internazionale che sempre più vengono richieste ai legali esperti del settore, dell’inclusione di nuove figure, quali gli “influencer” che promuovano i brand influenzando il pubblico social.

Da tutte queste importanti sfide è sorto un sempre maggior coinvolgimento nel settore della moda della figura dell’avvocato, focalizzato nell’ambito del fashion law, che ha dato il via ad altrettante sfide e opportunità per chi, come me, esercita la professione legale in questa industry.

Un primo tema, venuto particolarmente alla luce nel periodo della pandemia, è sicuramente quello della distribuzione, che si sta spostando in maniera sempre più massiccia dalla vendita presso i negozi fisici alla vera e propria distribuzione online su larga scala, tramite siti e-commerce del singolo brand o su piattaforme online e social più o meno conosciute alla clientela. Tale trasformazione ha portato le varie case di moda a ripensare anche la propria gestione immobiliare, sia in relazione agli immobili di proprietà sia a quelli in affitto. Oggi i brand di moda tendono a mantenere i loro flagship store in aree strategiche delle città ritenute più significative, li allestiscono come vetrine dei prodotti, luoghi in cui il cliente del lusso potrà vivere un’esperienza strettamente connessa al brand, molto più ampia del mero acquisto dei prodotti. Stiamo quindi assistendo alla rinegoziazione degli affitti di negozi troppo grandi o siti in zone non attrattive, arrivando anche alla chiusura di alcuni di essi, come annunciato qualche tempo fa da noti brand del fast fashion. Alla luce di tale intensificazione dell’e-commerce, in particolare durante il lockdown, e all’esperienza dell’acquisto online che sempre di più trova consenso e apprezzamento, difficilmente i negozi torneranno a popolarsi come nel periodo pre Covid e, di conseguenza, chi non si è attrezzato adeguatamente per vendere online potrebbe riscontrare problemi nel reggere la concorrenza di prezzo e di servizi.

Della recente “moda” dell’online è sicuramente un esempio lo svilupparsi di una nuova era contraddistinta dalla Fashion Week Digitale, che ha visto già nelle ultime due edizioni un numero sempre più elevato di fashion show online, caratterizzati non solo da “passerelle digitali”, ma anche da contenuti fotografici, video, interviste e backstage dei momenti creativi, proponendo veri e propri palinsesti ricchi e variegati sotto ogni punto di vista. La transizione a cui abbiamo assistito, d’altronde, è anche in questo caso frutto della necessità di adeguamento al nuovo contesto sociale che anche il settore del fashion ha affrontato nel solo modo possibile, ovvero affidandosi al mondo tech.

Collegato a questo primo tema, un’ulteriore questione che ha visto in prima linea il settore della moda è la tutela del prodotto accompagnata dall’interesse verso la qualità e la rinomanza del brand. Lo strumento dell’online deve infatti essere maneggiato con molta cura dalle case di moda, in quanto deve trovare un buon compromesso tra valore del brand e prestigio dei suoi prodotti, da un lato, e il contesto della vendita, dall’altro. Da un punto di vista legale, al fine di raggiungere una più ampia tutela del prodotto, si va sempre di più verso una distribuzione selettiva, che permette non soltanto di escludere dal network i rivenditori online che hanno siti che non rispettano i parametri qualitativi fissati dal brand, ma anche di vietare le vendite sugli open marketplace, che risultano non graditi a molti marchi del lusso. Accanto alla tutela del prodotto, la qualità del brand non può prescindere dalla provenienza del prodotto, in particolare legata al “Made in Italy”, simbolo di eccellenza e peculiarità legato alla creazione di prodotti fabbricati in Italia e con materie prime italiane.

I brand “Made in Italy” sono da sempre un target per gli investitori italiani e soprattutto stranieri. È facile supporre che tale marchio di fabbrica del tutto italiano sarà uno dei principali bersagli nell’epoca post Covid, in quanto il settore moda-lusso italiano, fatto anche di piccole aziende, è stato particolarmente penalizzato durante il lockdown, portandoci a poter ragionevolmente prevedere un incremento di operazioni M&A in tale settore, nel breve termine.

Oltre alle criticità più recenti, la pandemia non ha di certo spazzato via il problema delle contraffazioni. Fin dagli albori, i brand più esclusivi continuano infatti ad avere a che fare con uno storico problema di contraffazione che ha visto un’evidente impennata a seguito dello sviluppo del commercio online. Il “Made in Italy” è infatti spesso protagonista di casi di contraffazione, sfruttamento parassitario e altre violazioni della proprietà intellettuale. La globalizzazione dei mercati e lo sviluppo dell’e-commerce ha indubbiamente ampliato le opportunità di vendita e pubblicità per le aziende, ma al tempo stesso ha moltiplicato le minacce e consentito lo sviluppo di fenomeni come ad esempio, il cybersquatting e il typosquatting, fenomeni della contraffazione online che stanno diventando sempre più diffusi, anche nella semplicità dell’utilizzo dei social network come Instagram, Facebook, ecc.

Ancora una volta, anche in relazione a questo tema, nelle grandi aziende di moda, assume un ruolo sempre più centrale la figura dell’avvocato specializzato in materie IP (Intellectual property), che possa ricercare soluzioni alternative nel guidare i brand nella gestione del patrimonio IP e nella tutela sia online che offline del marchio inteso come segno distintivo che consente ad un’azienda di distinguersi, di identificarsi ed essere competitiva nel mercato globale. La protezione del marchio deriva, infatti, dal valore attrattivo e dalla sua capacità di consentire ai consumatori di riconoscere alcuni prodotti come provenienti da una specifica azienda. In particolare, nel settore del “luxury goods”, tale funzione assume maggior rilievo in quanto si tratta di beni definiti posizionali, cioè il cui acquisto è legato non tanto al loro utilizzo, bensì al fatto che tali prodotti fanno sorgere nel consumatore – che li possiede – la percezione di acquisire una sorta di “etichetta” che lo identifica in un determinato status socio-economico. La possibilità di ottenere un riconoscimento sociale con un minimo investimento spinge talvolta i consumatori ad acquistare imitazioni o falsi facendo venir meno quella funzione distintiva tipica del marchio a cui il consumatore associa un giudizio di apprezzamento qualitativo.

Torna infine alla ribalta, oggi più che mai, il tema degli influencer, ai quali sempre più persone si rivolgono online e si affidano ai loro consigli, e della gestione degli aspetti legali correlati all’attività di queste nuove figure professionali. Gli stessi brand hanno iniziato ad avvalersi di tali figure per pubblicizzare e promuovere i loro prodotti attraverso gli account social degli influencer, che inducono masse sempre più eterogenee all’acquisto di prodotti sulla base delle loro esperienze personali. A differenza di alcuni paesi stranieri, quali gli Usa, tale professione online risulta ancora poco regolamentata, mantenendo ancora in auge la tematica della trasparenza e di tutte quelle zone grigie che esistono tra la pubblicità dichiarata e il consiglio spontaneo. Siamo tuttavia fiduciosi che anche l’Italia ben presto adotti delle norme ad hoc per disciplinare al meglio l’attività degli influencer.

In conclusione, la trasformazione digitale e le nuove tematiche che sta affrontando il settore del fashion porteranno sempre di più ad un connubio tra online e offline (con un sempre più ipotizzabile predominio di quest’ultimo), il cui principio cardine per ciascun brand sarà quello di preservare il proprio prodotto e regolamentare ogni suo aspetto dalla creazione alla distribuzione. E quale figura meglio del fashion lawyer può aiutare i brand a superare tutte le sfide del futuro?

Un articolo di

Aurora Falsarella

Aurora Falsarella

Avvocato praticante, Associate presso Deloitte Legal. Alumna Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale (ASGP)

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