La tragedia della Marmolada piomba sulle nostre teste come un amaro risveglio alla realtà: il cambiamento climatico esiste davvero e continua ad avanzare senza sosta, anche se per due anni è stato rimosso da tutte le agende, spinto nell’angolo dall’emergenza pandemica.
Le temperature continuano ad aumentare ad un ritmo mai visto e il solenne impegno preso a Parigi 2015 di contenerne l’aumento in massimo 1.5°C entro fine secolo si è rivelato lettera morta. Era già chiaro agli addetti ai lavori che si trattava di un impegno impossibile da mantenere, ma gli organizzatori della Conferenza non potevano permettersi un fallimento, frutto dell’inerzia della politica e delle scelte degli stati di privilegiare i propri interessi nazionali a discapito dell’interesse globale.
È sempre stato così, ahimé. Lo abbiamo visto anche all’ultima Conferenza di Glasgow del 2021, finita in un ennesimo nulla di fatto. Così ora ci troviamo a fronteggiare un aumento di temperature che sarà realisticamente di 4.5°C entro fine secolo, se non addirittura di più. La pandemia ha contribuito a distogliere ulteriormente l’attenzione dal problema e così abbiamo perso altri due anni preziosi nell’inazione.
Qualcuno mi ha chiesto: come è possibile che nemmeno la serrata della pandemia abbia potuto rallentare il riscaldamento globale?
La risposta è semplice: il sistema climatico ha una inerzia piuttosto grande ed anche se - per ipotesi - oggi azzerassimo tutte le emissioni di gas serra (CO2 in primis) all’istante, la temperatura continuerebbe a crescere fino a fine secolo ed anche oltre.
Perché la CO2 emessa ha un tempo di residenza in atmosfera piuttosto lungo, circa cinque anni, ed altri gas serra ancora di più: circa dieci anni per il metano ed oltre 150 anni (!!!) per il protossido di azoto, solo per ricordarne alcuni. È come se staccassimo la marcia da una macchina lanciata a cento all’ora e la mettessimo in folle: l’auto non si fermerebbe all’istante, ma continuerebbe a correre, rallentando, per ulteriori due km o anche più se non freniamo. Così il riscaldamento globale.
Va poi ricordato che dopo la pandemia le emissioni di CO2 sono riprese al ritmo consueto e, anzi, sono pure aumentate. I ghiacciai alpini, come quelli dei poli e delle zone a latitudini elevate, sono i primi a pagarne le conseguenze. La temperatura troppo elevata causa l’apertura dei crepacci e l’acqua di fusione inghiottita nei crepacci raggiunge la roccia basale su cui poggiano i ghiacciai e agisce da lubrificante, agevolandone lo scivolamento a valle. La forza di gravità e la massa del ghiacciaio sovrastante fa il resto.
È quello che è successo al ghiacciaio della Marmolada, l’ultimo relitto dei ghiacciai delle Dolomiti, che si è fratturato ed è scivolato a valle liberando l’acqua di fusione intrappolata alla base ed ha generato una valanga di ghiaccio, acqua e rocce che ha travolto i malcapitati alpinisti con una velocità di circa 300 km orari.
È il destino di tutti i ghiacciai delle Alpi, autentici malati incurabili che si estingueranno entro fine secolo, forse anche prima.
Anche il “nostro” bel ghiacciaio dell’Adamello, il più grande delle Alpi meridionali, si sta ritirando di decine di metri all’anno, e farà la stessa fine. Qualcuno ha pensato di rallentarne l’estinzione. Al Presena, sopra il Passo del Tonale, il ghiacciaio da qualche anno viene ricoperto d’estate con una “coperta” isolante in grado mantenere bassa la temperatura.
Quest’anno, a causa delle alte temperature, la coperta è stata posata in anticipo, a fine aprile. Pensate che in soli due mesi, oggi, è possibile apprezzare uno scalino di oltre un metro tra la porzione di ghiaccio coperta e quella rimasta scoperta. Una dimostrazione impressionante della velocità dei processi di cambiamento in atto.
Che fare dunque?
È troppo tardi per salvare i ghiacciai alpini, temo che il processo di scomparsa sia ormai inarrestabile. Possiamo però fare qualcosa per cercar di rallentare quest’auto che corre impazzita. Innanzitutto, dovremmo puntare alla realizzazione della neutralità climatica, ovvero alla riduzione delle emissioni globali di CO2 fino ad eguagliare la quantità di CO2 annualmente rimossa dalle piante ed assorbita dagli oceani. E sarà già dura, perché significherà riformare i nostri sistemi energetici puntando esclusivamente sulle rinnovabili. E poi dovremo imparare, come cittadini, a risparmiare energia (bene gli incentivi per gli isolamenti termici, le tende parasole, ecc…) e ad adottare stili di vita ecosostenibili. Sarà doloroso, per noi e le nostre economie, ma non basterà.
Dovremo spingerci oltre ed escogitare sistemi per la rimozione diretta della CO2 dall’atmosfera. Sistemi sperimentali di rimozione e sequestro di CO2 in giacimenti di gas o petrolio esauriti esistono già, ma sono allo stato prototipale e -soprattutto- richiedono molta energia per funzionare: un gatto che si morde la coda. Certo, l’energia potremmo ottenerla per via rinnovabile con sistemi solari, eolici, geotermici, mareomotori. Ma allora le esigenze energetiche di queste “CO2 farm” potrebbero entrare in conflitto con quelle della popolazione mondiale, ancora in rapida espansione, tra i 12 e i 17 miliardi di abitanti sul pianeta entro fine secolo, secondo le stime più ottimistiche. E non potremo certo ricoprire tutto il pianeta di pannelli solari, con tutta questa gente da sfamare.
Il problema, come si vede, è assai complesso e intreccia economia, demografia, ambiente, sociologia, e politica. Ma non dobbiamo arrenderci e dobbiamo sollevarci le maniche. E nel frattempo dobbiamo imparare a convivere con i processi di cambiamento in atto, imparare a prevedere gli eventi estremi con migliore precisione (come quello accaduto sulla Marmolada), imparare ad adattarci alle nuove condizioni climatiche ed escogitare strategie di mitigazione.
Lo dobbiamo alle future generazioni ed ai nostri ragazzi che ce lo chiedono a gran voce.