Sarà un caso che nella stessa giornata siano venuti a mancare Raffaele La Capria e Leonardo Del Vecchio, due figure di primo piano della letteratura e dell’imprenditoria, capaci di testimoniare con il loro esempio, con le loro opere, una lunga fedeltà al mestiere che hanno scelto (sia l’uno che l’altro hanno continuato a lavorare anche in tardissima età), sia a quella innata disposizione a non dare mai nulla per scontato, tanto nei fatti dell’immaginazione letteraria quanto in quelli della produzione industriale. Ricordare entrambi, accomunandoli a questa data, non è soltanto un modo per celebrarne il successo, ma per ribadire che un filo invisibile scorre tra le regioni apparentemente lontane del loro agire, come possono essere quelle del fare libri e del fare oggetti (tra l’altro, oggetti spesso propedeutici alla lettura dei libri, come sono, appunto, gli occhiali). In fondo, per l’uno e l’altro, la vita ha riservato il privilegio di essere una lunga frequentazione con il Novecento.
La Capria ha osservato con una lente inedita gli esiti della città dove è nato nel 1922 e a cui ha continuato ad appartenere anche quando si è trasferito altrove. Sto parlando di Napoli, ma non quella consueta della cartolina con il Vesuvio e il pino di Posillipo, piuttosto la Napoli delle insoddisfazioni giovanili, delle crisi esistenziali narrate alla maniera di una Roma felliniana o di una Parigi da rive gauche, su cui agiva quella che La Capria stesso chiamava la “ferita della Storia”, il fallimento di un sogno che aveva una precisa data: la Rivoluzione del 1799, l’alba di una nuova storia conclusasi troppo in fretta e assai prima. Se dovessimo pensare a com’era la Napoli di quando è nato e metterla in corrispondenza con quella del nostro presente, non faticheremmo ad accorgerci che vivere, per La Capria, ha assunto il significato di verificare le stratificazioni della Storia.