Di Iraq non si parla, o – quantomeno - non se ne parla se non quando il Paese viene scosso da attacchi di inaudita violenza o non rischi di essere attraversato da ondate di brutalità capaci di propagarsi all’intera regione e, di conseguenza, di lambire i nostri confini. Anche in questi casi, però, le analisi tendono a proporre una lettura degli avvenimenti schiacciata su un tempo presente che tende a fagocitare passato e futuro. Quasi come se non ci si potesse aspettare altro da un territorio condannato all’instabilità da rivalità ataviche tanto profonde da risultare insanabili.
Eppure, per cercare di comprendere i delicati equilibri della Terra dei due fiumi, oggi è più che mai fondamentale guardare agli oltre centro anni di storia della sintesi statuale irachena e, al tempo stesso, volgere lo sguardo in avanti, verso orizzonti che possono solo essere immaginati.
Il passato, infatti, per quanto più o meno distante, pesa come un macigno. Pesano i decenni di dittatura che, dal 1958 – anno della caduta della monarchia hashemita – si sono protratti sino al marzo 2003, quando l’operazione Iraqi Freedom segnò l’inizio della fine di Saddam Hussein. Al potere dal 1979, questi è stato l’emblema di un regime del terrore capace di sopravvivere alla guerra con l’Iran di Khomeini (1980-1988), alla sconfitta subita durante l’occupazione del Kuwait (1990-1991), alle sollevazioni esplose nel sud e nel nord del Paese e al decennio di sanzioni internazionali che inflissero pene indicibili alla popolazione civile. Pesano, e forse in misura ancora maggiore, i terribili anni seguiti alla liberazione di Baghdad e i molteplici errori commessi da Washington e dai suoi partner internazionali nei primi anni di vita del “nuovo Iraq”.