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La grande alleata delle fake news: la paura

23 febbraio 2021

La grande alleata delle fake news: la paura

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Quanto la paura può minare la capacità di distinguere una notizia vera da una fake news? È questo l'obiettivo di uno studio che ha riguardato Italia e Stati Uniti, due fra i paesi più colpiti dal Covid-19.

L'Università Cattolica e la sede di Austin della University of Texas insieme hanno condotto una ricerca che ha provato a capire quanto il timore di ammalarsi abbia influito nei processi sociali e cognitivi durante i primi due mesi di pandemia.

«Abbiamo deciso di raccogliere i dati di ricerca andando a utilizzare un campione su una parte di popolazione sia italiana che americana – spiega Alice Cancer, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia della Cattolica che si è occupata dello studio, che è stato guidato da Carola Salvi della University of Texas at Austin e a cui hanno partecipato, tra gli altri, anche i professori Alessandro Antonietti e Paola Iannello – a cui abbiamo fatto compilare un questionario che prevedeva una serie di compiti: venivano presentate una serie di titoli di notizie, la cui metà erano vere e la metà false, con argomenti sia generali che a tema coronavirus».

Secondo lo studio, le persone che avevano alti livelli di conservatorismo, quelle polarizzate e con posizioni dogmatiche, erano quelle che tendevano a essere meno brave nel capire quali fossero le notizie vere e quelle false, a prescindere che riguardassero o meno il Covid-19.

Perché vi siete concentrati proprio sulla paura?
«Nella situazione che abbiamo vissuto fra marzo e aprile, la paura era il sentimento che più probabilmente potevamo prevedere nelle persone. È emerso che si è trattato di un’emozione che ha reso peggiore le capacità degli individui nel capire le notizie vere da quelle false; in sostanza, le rendeva più credulone, ma dall’altra parte abbiamo anche evidenziato come la paura abbia una valenza evolutiva utile alla sopravvivenza. Non a caso nella ricerca abbiamo osservato che chi aveva più paura del Covid-19 aveva una maggiore predisposizione a condividere le notizie in generale. Non ci siamo dunque concentrati solo sugli aspetti controproducenti di questo sentimento».

La pandemia ha acuito la polarizzazione già in atto?
«C’è tutto un filone che ha indagato gli effetti dell’utilizzo dei social network nell’utilizzo dei sistemi cognitivi e sulle capacità di giudizio degli individui. Di recente è uscito su Netflix The Social Dilemma, un documentario che parla proprio di come l’utilizzo dei social media abbia determinato maggiori livelli di polarizzazione, con algoritmi spingono quelle notizie che vanno a confermare il proprio pensiero. Sono personalizzati in base alle proprie preferenze, e questo tende a escludere una serie di informazioni alternative che sono utili ad avere un quadro più completo. Questa è però una premessa teorica, dato che la nostra ricerca ha raccolto dati in un periodo successivo».

Qual è la porzione di persone che hanno avuto difficoltà nella risoluzione dei problemi, e quanto c’entra con la polarizzazione?
«Nei nostri test non ci siamo basati sul raggiungimento di una certa soglia: queste sono variabili continue e quindi abbiamo valutato la relazione fra capacità di problem solving e la polarizzazione socio-cognitiva. La tendenza emersa è che essere assolutisti nel pensiero predice, dal punto di vista statistico, di essere meno in grado di risolvere problemi a livello cognitivo. Si tratta di un trend che abbiamo descritto, ma non è che chi aveva una polarizzazione alta non era in grado di svolgere questi compiti: però alti livelli di questa caratteristica la mettevano in conto, ecco. È come se questa modalità di pensiero inficiasse con la capacità di approfondire le informazioni legate a un problema, e quindi poi poterne raggiungere la soluzione corretta».

Un articolo di

Natale Ciappina

Scuola di Giornalismo

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