E allora, a distanza di cent’anni, che cosa rende questo romanzo ancora così affascinante? Secondo Fontana è la «schiettezza» con cui ci parla e la «dilatazione tremenda del potere giudiziario e, più in generale, degli apparati di controllo che mostra», e che da lì a poco si sarebbe realizzata in Europa con l’avvento del fascismo. Ecco perché spesso ed equivocamente si attribuiscono «qualità profetiche» alla prosa kafkiana, dimenticando che Kafka non è un profeta, ma semplicemente uno «straordinario scrittore», un «artista» che lavora con il materiale che ha a disposizione, un «innamorato della lingua». Ma non è l’unico equivoco da cui Kafka va liberato. Quello più frequente è considerare il protagonista una «vittima innocente», tormentata senza colpe e accusata ingiustamente. In realtà, Josef K. è una «brutta persona», un affermato funzionario di banca, che, davanti alle cortesie di facciata, nasconde una «disumanità» nei confronti dei colleghi molto evidente. Una persona la cui aggressività va oltre il carrierismo e il disprezzo. Caratteristiche psicologiche che non sono quasi mai raccontate quando si fa una sintesi della trama del “processo”, ma che dicono tanto del protagonista. Un uomo, K., urbano nel senso che lavora e vive in una grande città e che, di colpo, il processo getta in un’altra città, più vera, una sorta di «università della vita», costringendolo a uscire dal suo piccolo regno, che è l’ufficio, e a vagare tra luoghi non suoi: soffitte opprimenti, quartieri popolari, caseggiati sporchi, grandi condomini pieni di bimbi che schiamazzano, officine, atelier di pittori senza un soldo. Un mondo proletario e popolare che K. non conosce minimamente e anzi rifugge, ma che deve purtroppo frequentare. Una città complessa e turpe che altro non è se non un modo per offrire «un effetto straniante» che in altri racconti Kafka ottiene con mezzi differenti, per esempio nella metamorfosi con la trasformazione in un insetto o Nella colonia penale con un viaggio esotico.
Anche il tribunale è qualcosa di assurdo, un organismo senza senso e privo di regole, con cui K. si scontra e contro il quale a gran voce urla la sua innocenza. Ma invano. Fino a quando, di passo in passo, diventa una «docile vittima» di questo gigantesco apparato. Così nell’ultimo capitolo si lascia uccidere perché ha accettato la logica di fondo del tribunale: quella del più forte, quella per la quale lui aveva vissuto tutta la vita. Di qui la grandezza di Kafka, che sta nella capacità di cogliere quelle piccole relazioni di potere che tutti nella vita quotidiana ci troviamo a sperimentare, per esempio l’essere trattati con dispregio o superiorità. Una grandezza, la sua, resa possibile dall’uso di un linguaggio che lo porta a descrivere con maestria «la triste meschinità degli esseri umani e il loro bisogno di imporsi l’uno sull’altro». Per questo va letto Kafka, perché «se abbiamo il buon cuore, la volontà, l’amore di ascoltarlo a mente sgombra e senza infingimenti ne possiamo trarre non informazioni sullo stato dell’uomo, come diceva Adorno, ma sicuramente più luce, come suggeriva Goethe».