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Quella parola indicibile tra rimozione ed esibizione

28 ottobre 2021

Quella parola indicibile tra rimozione ed esibizione

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La morte è uno dei grandi interrogativi dell’umanità che, in questo periodo di pandemia, si è proposto con drammatica evidenza. Ma qual è il significato che la nostra società attribuisce alla morte? È quanto ha cercato di indagare l’Archivio Julien Ries attraverso il seminario internazionale annuale, svoltosi il 26 ottobre dal titolo emblematico “Morte e immortalità tra rimozione ed esibizione”.

«La morte rappresenta un tema dalle tante sfaccettature», ha detto Silvano Petrosino, direttore dell’Archivio Julien Ries, che introducendo l’incontro ha fatto leva sul gioco tra la vita e la morte dove si può guardare la morte a partire dalla vita o la vita a partire dalla morte. «Scegliere la morte vuol dire appartenere alla morte. Bisogna non scegliere la morte e non fare dell’essere mortale una giustificazione per compiere il male. Neppure l’ingiustizia subìta giustifica il male. L’empio appartiene alla morte, il giusto no».

Simona Beretta, direttore del Centro d’Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa, al quale afferisce l’Archivio Ries, nel suo saluto ha evidenziato come, su intuizione di papa Benedetto, la questione sociale è questione antropologica, e come morte e mortalità mettono a nudo la questione umana e interpellano i legami tra le generazioni. Partendo da immagini del suo passato ha ricordato come le bambine in anni lontani, indossando una mantellina di lana color antracite accompagnavano a novembre la processione al cimitero: ciò rendeva l’esperienza della morte un evento non privato ma una esperienza di partecipazione corale e stimolava la riflessione sulla vita.

Il seminario si è arricchito, inoltre, di un magistrale intervento dell’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, sul contributo della tradizione cristiana e dello stesso Gesù a proposito della morte. La sua riflessione è partita da una considerazione sulla predicazione degli ultimi secoli relativa ai cosiddetti “novissimi”, cioè gli eventi che concludono l’esperienza terrena dei cristiani - morte, giudizio, inferno e paradiso - che trovava ampio spazio quale espediente retorico finalizzato a richiamare alla conversione e alla vita cristiana, utilizzando un tono minaccioso. «Del resto quando la fede scompare rimane l’immaginario terroristico del far paura, non più fondato al riferimento sulla rivelazione cristiana ma sospeso sull’indefinito e sull’enigmatico esito che può avere la vita umana, che può concludersi con la condanna eterna». La cultura italiana, anche grazie a Dante, ha contribuito a sviluppare un immaginario arricchito di particolari inventati da fantasia poetica e da retorica predicatoria. Oggi i “novissimi” sono scomparsi da gran parte della predicazione per il fatto che la nostra cultura si trova a disagio di fronte all’esito ultimo della vita. Lo si nota dal modo come si annuncia la morte di una persona, con formule che si avvalgono di eufemismi pur di non pronunciare la parola “morte”.

La riflessione dell’arcivescovo è proseguita facendo riferimento alla singolarità dell’esperienza della morte di Gesù che permette di interpretare quella di tutti gli uomini. «Gesù è stato ucciso, non ha subito la morte, ma ha vissuto questa violenza interpretandola, e lo desumiamo dalle parole dell’Ultima Cena, con i due gesti della distribuzione del pane e del calice». Circa il pane dice ‘questo è il mio corpo che è dato per voi’, ed essendo Gesù il pane vivo disceso dal cielo, fa riferimento al fatto che il suo corpo possa diventare cibo sotto il segno del pane: in tal modo Gesù interpreta la morte come un dono e la morte diventa un atto di amore. «La gloria di Dio non è sbaragliare i nemici ma è l’amore, come atto di libertà, che si dona sino alla fine».

E poi il calice: quando Gesù dice ‘questa è la nuova alleanza nel mio sangue versato per voi’, afferma che con la morte si stringe un’alleanza, categoria biblica determinante e celebrata la prima volta sul Sinai con il sangue dell’agnello. L’alleanza è la garanzia dell’intervento favorevole di Dio per il suo popolo a condizione che venga praticata la legge. La ratifica dell’alleanza è data da Dio che ha risuscitato il suo Figlio: non è la conclusione di un atto di amore che finisce nel nulla ma da lì viene la vita nuova.

Per l’arcivescovo «attraverso il vivere e il morire lo Spirito Santo rende possibile ai credenti il vivere e morire come Gesù per risorgere con lui. Il cristiano non sa molto di quello che avviene dopo la morte, ma sa l’essenziale, cioè che dopo la morte di Gesù partecipiamo alla sua vita, che è la vita eterna. La vita eterna non è collocata in un tempo, un luogo o una situazione ma è una relazione che lo Spirito Santo rende possibile per vivere in Dio». Pertanto, ha concluso, «questo vivere e questo morire è in Dio. E noi abbiamo tale certezza che siamo in Dio».

Durante il seminario si sono alternati vari interventi che hanno messo la morte in relazione con aspetti esistenziali, artistici, teologici, esperienziali, storici, di attualità. Tra questi gli approfondimenti “Perire, morire, appartenere alla morte” di Silvano Petrosino, “Le Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Analisi e interpretazione” di Natale Spineto dell’Università degli Studi di Torino, “Il concetto di morte e il Cristianesimo” di Sergio Ubbiali della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, “La tragedia del morire: la recente esperienza dell’epidemia e la sua rappresentazione giornalistica” di Daniela Taiocchi, giornalista dell’Eco di Bergamo, “Morte e cultura in Giappone” di Maria Chiara Migliore dell’Università del Salento, “La morte nella tradizione indiana e buddista” di Gianni Pellegrini dell’Università degli Studi di Torino.

 

Un articolo di

Agostino Picicco

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