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Quando L’Avana accolse i bambini di Chernobyl

01 aprile 2022

Quando L’Avana accolse i bambini di Chernobyl

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Martedì 29 marzo 2022, le Cattedre di Lingua e Letteratura Spagnola e Ispano-americana dell’Università Cattolica hanno presentato, nel ciclo “Incontri con l’autore”, una conversazione con Manuel Barriuso Andino, docente di lingua spagnola presso l’Università dell’Insubria. Barriuso è il protagonista di una storia che viene raccontata nel film “Un traduttore”, diretto dai figli Rodrigo e Sebastián Barriuso. Quanto segue è un riassunto dell’incontro, tenuto dalla professoressa Michela Craveri e il professor Dante Liano.


Quando il professor Manuel Barriuso Andino si presentò nella sua aula nell’Università di L’Avana, per la solita ora del corso di letteratura russa, trovò un cartello sulla porta in cui si annunciava che le lezioni erano sospese. Accanto al cartello, una busta con una lettera a lui indirizzata. Barriuso la aprì. Lesse, con meraviglia, che le autorità universitarie gli ordinavano di presentarsi all’Ospedale Nazionale. Quando varcò la soglia dell’Ospedale, una sorpresa lo attendeva.

Barriuso apparteneva a una famiglia di ottima tradizione culturale. Il padre era economista e lavorava alla Banca Centrale di Cuba. Questo gli aveva permesso di avere una bella casa nel quartiere di El Vedado, un complesso residenziale appartenuto alla borghesia benestante prerivoluzionaria. Lungo strade alberate e giardini curati, piccoli palazzi stile anni 50 dimostravano che l’Avana era stata, da sempre, una delle capitali più belle e fiorenti dell’America Latina. Verso gli anni 70, El Vedado era abitato da funzionari statali, professori universitari, musicisti, poeti, artisti. Anche con le poche risorse che avevano, gli abitanti curavano le case con maggior impegno di quelli di L’Avana Vecchia. La posizione del padre aveva permesso a Barriuso un lusso: avere una macchina, e non una macchina qualsiasi, ma una chicca per l’epoca: una Fiat 128, di un design che evocava più l’eleganza che la velocità.  

Quando finì la secondaria, Barriuso si presentò agli esami d’ammissione della Scuola di Giornalismo. Fu bocciato: non apparteneva al Partito Comunista e, inoltre, era un ragazzo irrequieto. La preside della Scuola lo chiamò e gli disse: «Senti, visto che sei una testa calda, il tuo luogo ideale è la Russia», e gli offrì una borsa di studio a Leningrado (oggi San Pietroburgo). Quando Barriuso comunicò alla famiglia la sua intenzione di studiare nell’Unione Sovietica, il padre commentò, lapidario: «Visto che non hai imparato l’inglese, non imparerai nemmeno il russo. Nel giro di un anno sarai di ritorno». Invece, Barriuso restò per cinque anni, e s’immerse nella grande cultura di quel paese. «Ammiro soprattutto Chechov - dice con entusiasmo - fra Dostoevskij e Tolstoj, scelgo la sua perfezione». E raccomanda di ascoltare “La Barcarola”, di Tchaikovsky. Fa un gesto, dondolando la testa: «È come essere sul mare» afferma mentre chiude gli occhi.

Di ritorno a L’Avana, entrò in Università come professore di letteratura russa. La sua vita trascorreva nella routine di un professore universitario, con la bella casa nel Vedado e la 128 ereditata dal padre. Ha un motto di sdegno: «A Bruxelles, qualcuno mi ha detto che avevamo una vita sofisticata. No, non eravamo ‘sofisticati’!». Dà l’impressione che la parola suoni come un attacco al suo stile di vita di quell’epoca, che fu molto dura per i cubani. «Noi eravamo proletari», afferma. Usa quella parola. «Vivevamo del nostro stipendio, mio padre, mia madre, mia moglie e io. Eravamo lavoratori della cultura». Ha ragione: il comunismo cubano non permetteva disparità di salari fra le diverse professioni. E gli stenti degli uni erano quelli degli altri, nei periodi di maggior crisi economica. Vero è che la élite culturale cubana non smise mai di avere degli alti rappresentanti in tutti i campi dell’arte: poeti, narratori, musicisti, compositori erano e continuano a essere al più alto livello mondiale.

 

Nel 1989 la vita di Barriuso cambiò radicalmente. Quando le autorità universitarie chiusero il suo corso e lo destinarono all’Ospedale di L’Avana, Barriuso dovette fare qualcosa per cui non era preparato. Nel varcare la soglia trovò i suoi collegi del Dipartimento di Letteratura Russa al completo. Un funzionario disse loro: «Siete venuti qui per fare i traduttori». Era l’ultima cosa che si potevano aspettare. Traduttori? Di chi? Di cosa?

Nel 1986, a Chernobyl, Ucraina, un incidente a un reattore nucleare aveva provocato una catastrofe. La contaminazione radioattiva si estese alla popolazione, e, dopo pochi anni, in molti presentavano diversi tipi di tumori. Alcuni erano bambini che furono curati, in una gara di solidarietà internazionale, in molti paesi del mondo. Fra quei paesi c’era Cuba. Migliaia di bambini arrivarono a L’Avana. Le autorità avevano pianificato quasi tutto: medicinali, medici, infermieri. Solo quando i bambini arrivarono si resero conto che mancava un pezzo: i ragazzini parlavano russo. Era quello il motivo per cui Manuel Barriuso Andino era stato convocato in ospedale. Doveva fare il traduttore.

Barriuso resistette. Soffriva di ipocondria e il solo pensiero di lavorare in un ospedale lo faceva stare male. Se ne tornò a casa e si diede malato. Il destino assunse le parvenze di un convincente funzionario del Partito Comunista che lo fece tornare, a forza, in ospedale. Una volta lì, sentì nei corridoi delle persone che parlavano in russo. Si avvicinò. Era la madre di uno dei bambini che non capiva cosa stesse succedendo. Il medico le stava dicendo, in spagnolo, che per suo figlio non c’era niente da fare. È stata la prima traduzione fatta da Barriuso, ed è una scena che mai dimenticherà. Successivamente, il primo bambino, Alexei, con la testa senza capelli e gli occhi scavati dalla leucemia. Il dramma in cui era immerso fece sì che Barriuso dimenticasse la sua ipocondria. Passava le giornate in ospedale, traducendo le crudeli diagnosi e aiutando i bambini ad accettare le dolorose cure.

Un giorno, Alexei gli disse: «Vuoi che ti racconti come è stata l’esplosione?». Dopo quella straziante narrazione, Barriuso pensò che fosse bene far ritornare quel ragazzino alla sua infanzia. Prese, a casa, un libro di racconti cubani, e ripagò Alexei con la lettura di quelle innocenti vicende, pensate per bambini sani e, fino a un certo punto, felici. Presto si trattenne in ospedale a organizzare delle serate in cui leggeva ai bambini, poi li faceva disegnare e anche cantare. Aprì una finestra di sollievo a quei piccoli malati, che per pochi istanti dimenticavano la sofferenza e la vita ospedaliera.

D’improvviso, com’era cominciata, la vicenda finì. Le autorità avevano trovato, fuori l’Avana, una struttura più adatta per i malati di Chernobyl. Avevano trovato anche traduttori professionali. I professori di russo furono convocati e gli venne comunicato che i loro servizi potevano considerarsi conclusi. Barriuso fece appena in tempo a salutare i suoi bambini. Fu un momento di grande dolore, perché erano tutti destinati a morire in poco tempo. «Cosa imparai da loro? A fare più attenzione ai miei figli». Nel corridoio, mentre si apprestava a lasciare per sempre quel gruppo con cui aveva condiviso racconti, canti e disegni, una infermiera lo accompagnò all’uscita. Spingeva una carrozzina, con una delle bambine, che chiese a Barriuso: «Ci verrai a trovare?» Barriuso lanciò uno sguardo all’infermiera. Questa fece di no con la testa. Barriuso mentì: «Certo che vi vengo a trovare!» Ma le regole della burocrazia erano feroci. Non li vidi mai più. «Ancora oggi mi resta nella mente una sola parola – racconta- Un’esclamazione dell’infermiera, alle mie spalle. Non trovando un modo migliore di accommiatarsi, mi salutò dicendo solo: ‘Professore!’ Io non mi voltai. Ho camminato verso l’uscita. Quella esclamazione chiudeva un mondo, una storia intima, un dolore per tutta la vita. Infatti, quando i miei studenti di russo mi chiesero di raccontare loro cosa era successo, risposi solo: ‘È finita’».

Un articolo di

Dante Liano

Dante Liano

docente di Lingua e letteratura spagnola

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