Il bullismo non l’ha provato sulla sua pelle. Ma l’interesse per questo tema e l’esperienza maturata sul campo lo hanno spinto a indagarne i meccanismi e a esplorarne la sua forma più aggiornata, che passa attraverso i social. Ne è nata una tesi che è diventata un libro su come bullismo e cyberbullismo siano cambiati nel periodo del primo lockdown. A scriverla è stato Alessandro Bolognesi, classe 1997, laureando magistrale in Progettazione Pedagogica nei Servizi per Minori all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, che ha indagato quell’indifferenza che nasce all’interno del gruppo e che porta alla violenza, per sottolineare l’importanza dell’informazione, della formazione e della prevenzione negli istituti scolastici, con l'obiettivo «di fornire un'analisi critica del fenomeno ma, nel contempo, di creare speranza di rinascita da fenomeni come bullismo e cyberbullismo».
Alessandro, com’è cambiato il bullismo in questi anni?
«Si è passati in pochissimo tempo da una 500 a una Ferrari; però la macchina esisteva già, il motore esisteva già, è stato solo potenziato e se ne è perso il controllo. Quindi, se sicuramente è cambiato il modo di relazionarsi in rete, la domanda che dobbiamo porci è se davvero dovessimo aspettare i social network e la pandemia, per preoccuparci di questi fatti.
La pandemia sicuramente ha incrementato le segnalazioni come riportato dai dati diffusi da Fondazione Carolina; inoltre è aumentato non solo il numero di casi, ma anche le richieste di aiuto. La diffusione dei media digitali e sociali anche nelle scuole ha, infatti, portato sotto i riflettori dell’opinione pubblica una serie di fenomeni da lungo tempo esistenti ma mai percepiti in maniera così urgente. Pensiamo in modo particolare a tutta la gamma dei comportamenti che di solito vengono raccolti sotto il generico ombrello del cyberbullismo».
«Riporto un esempio concreto. La scuola italiana, in ogni ordine e grado ha dovuto modificare il proprio modo di insegnare, incrementando la famosa DAD (Didattica a distanza). Per la prima volta i docenti e gli educatori si sono trovati senza volerlo nei meccanismi di cyberbullismo, rischiando di trasformare se stessi nelle vittime di questo processo.
L’adescamento online è forse quello più temuto dai genitori, perché ci si sente vittime impotenti in balia di una figura esterna che irrompe in casa attraverso internet, se i figli non sono capaci di porre alcune regole per proteggersi».
Possiamo individuare aspetti e caratteristiche distintive costanti di un cyberbullo e di una cyber vittima?
«Non esiste un identikit preciso di cybervittima e cyberbullo, possiamo però riscontrare dei tratti distintivi. Sensibilità, ansia, chiusura in se stessi e insicurezza sono ad esempio ai primi posti tra i tratti caratteriali della maggior parte delle vittime di cyberbullismo. Quando parliamo dei bulli dobbiamo considerare che spesso siamo di fronte a un passato di infanzia difficile e tormentata, abbiamo di fronte storie di bambini che hanno vissuto esperienze fuorvianti e di ripetute incomprensioni. Il primo elemento quindi è la fragilità.È per questo che il bullo ha bisogno di incontrare nel proprio agire persone completamente differenti da lui».
Quali soluzioni sono possibili?
«Spesso docenti, insegnanti, educatori e gli stessi genitori non intervengono perché non sanno cosa fare. Sono però stati fatti passi da gigante, il nostro sistema legislativo è arrivato all’emanazione delle linee guida Ministeriali (MIUR) del 2007 e successivamente, nel 2017, a una vera e propria legge che regolamenta fenomeni in continua crescita come il bullismo digitale. La via da percorrere sta nel potenziamento di formazione, informazione e prevenzione. Tutto però non può essere svolto da una singola persona, da un genitore o da una figura educante, ci devono essere coesione e collaborazione tra tutti».
Ad esempio?
«Un esempio pratico potrebbe essere quello di creare una relazione sempre più profonda tra la figura del docente e quella dei genitori, o ancora di più far conoscere alla figura genitoriale l’importanza del docente che svolge il ruolo di referente del cyberbullismo all’interno della scuola».
Il tuo libro si intitola: quando l’indifferenza fa male più di un click. Chi sono gli attori di questa indifferenza?
Rigiro la domanda, che è il fine di questo libro: è possibile che gli indifferenti non abbiano uno schieramento? Spesso si interviene all’interno delle classi quando il fatto era è già successo, e spesso quando si incomincia ad affrontare il discorso e a far parlare il gruppo, a dare uno spazio di ascolto per ciascuno in una dimensione di gruppo, emerge che una parte dei cosiddetti indifferenti non sono affatto indifferenti. Vedono, capiscono e sono a disagio.
Quindi che passaggio manca?
«Il punto è che mancano all’interno delle nostre scuole e non solo, degli spazi dove le cose che uno ha dentro possano essere manifestate e condivise o semplicemente discusse con altre persone. In quel vuoto cova l’indifferenza e cova la prevaricazione che può̀ ripetersi in qualsiasi forma venga espressa. Ammettiamolo, spesso l’indifferenza è una finta, in adolescenza è più che mai una finta. Che sia nel tuo gruppo classe, nel tuo gruppo sportivo, nel tuo gruppo di amici o comunque tra ragazzi che frequenti normalmente, dov’è che si può̀ essere indifferenti? Dentro lo sai da che parte stai. Ed è per questo che il libro si intitola così, l’indifferenza che una persona mostra, magari non difendendo il proprio amico può davvero fare più male di un click».