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Se il Welfare aziendale promuove la comunità

15 novembre 2022

Se il Welfare aziendale promuove la comunità

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Protezione della salute tramite parziale copertura dell’assistenza sanitaria, forme di integrazione previdenziale, misure di sostegno alla conciliazione vita-lavoro, sostegno al reddito familiare, rimborsi per i costi sostenuti per l’istruzione e l’educazione dei figli, convenzioni e servizi per il tempo libero. È lungo l’elenco di benefit erogati a favore dei dipendenti, che e possono essere qualificati come Welfare aziendale. Una pratica che ha origini ben più lontane del caso Olivetti e s’intreccia con la storia del nostro Paese. Basti pensare ai “villaggi operai”, tra i quali il celebre villaggio Crespi d’Adda in Lombardia.

Ma queste iniziative, oltre a generare benefici per i lavoratori, possono avere ricadute sul territorio e sulla comunità locale? Alla questione ha cercato di rispondere il convegno il “Welfare aziendale. Una risorsa per il territorio”, che venerdì 4 novembre ha riunito nell’Aula Pio XI dell’Università Cattolica del Sacro Cuore accademici e professionisti delle risorse umane per raccontare, ciascuno dalla propria prospettiva, alcune tra le più innovative politiche di questo tipo presenti a livello nazionale.

«Il Welfare aziendale costituisce uno specifico e fondamentale ambito di sperimentazione e attuazione di percorsi per l’innovazione sociale, che hanno ricaduta non solo sulle imprese, sulle organizzazioni lavorative e sui lavoratori ma anche sullo stesso territorio nel quale questi soggetti operano», ha detto aprendo il dibattito Vincenzo Cesareo, professore emerito dell’Università Cattolica e attualmente coordinatore nazionale della Rete Welfare Responsabile – Spe, un network che raccoglie 18 università ed enti con l’obiettivo di effettuare studi e proposte per innovare il Welfare italiano. «È ormai del tutto evidente che lo Stato da solo non è più in grado di soddisfare la crescente domanda di Welfare: infatti, da una parte diminuiscono le risorse pubbliche, mentre dall’altra aumenta la domanda. Inoltre, nella prospettiva del Welfare responsabile, Stato, mercato e Terzo settore sono tre pilastri indispensabili che trovano forma in tre specifiche forme di Welfare: municipale, aziendale e comunitario, sempre più chiamate a raccordarsi tra loro e a creare virtuose sinergie».  

D’altronde, ha ribadito il rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli, c’è sempre più bisogno di un modello di Welfare aziendale che, per rispondere alle grandi trasformazioni del nostro tempo, sia fondato sull’idea di un’azienda che si assume una «responsabilità civile e sociale». Un modello che Ferruccio De Bortoli, fornendo un quadro storico di quelli che in Italia ne sono stati i precursori, ha definito «inclusivo». «Il Welfare aziendale non deve creare troppe differenze tra quanti ne usufruiscono e quanti invece no. Da questo punto di vista può essere d’aiuto la diffusione territoriale delle esperienze di singole imprese». “Case history” e “best practice”, dunque, «che possono trovare giusto sviluppo quando l’azienda apre le porte e si mette a disposizione del territorio», ha fatto eco la docente dell’Università di Bologna Elena Macchioni. Non a caso, ha aggiunto, «il Welfare aziendale territoriale nasce per tenere insieme logiche apparentemente contrapposte: quelle dell’azienda e quelle della comunità locale. In questo senso il Welfare responsabile è una logica per cui ciascun attore mette in comune il suo contributo alla costruzione del benessere condiviso, che è innanzitutto capacità di azione per il bene comune. Così il territorio cessa di essere un semplice luogo geografico per diventare una modalità di cooperazione per il bene comune».

Insomma, siamo di fronte a un nuovo modo di essere impresa, un’«azienda responsabile» che «risponde a tutti gli stakeholders: non solo azionisti, non solo dirigenti, ma anche dipendenti, fornitori e più in generale la comunità locale», ha specificato il sociologo della Cattolica Luca Pesenti. Difatti, «le pratiche di Responsabilità Sociale, così come la certificazione ESG, nascono da una spinta che proviene dai cittadini, che chiedono conto alle aziende del loro agire e non solo della loro capacità di fare utili. La nuova fase del Welfare aziendale si può riassumere così: più people care, meno flexible benefit. Cioè occorre ri-qualificare il welfare aziendale secondo la sua natura autentica, che è di natura sociale».

La parola è poi passata alle aziende con gli interventi di Marco Corcione, HR Manager Gruppo Mondadori, di Eleonora Ferri, Senior HR Manager Arvedi Group, di Alessandro Rusciano, direttore Personale e Organizzazione Gruppo Iren, e di Giovanni Scordo, direttore Risorse umane Acciai Speciali Terni Spa, ciascuno dei quali ha raccontato il ventaglio di iniziative sociali introdotte negli ultimi anni. Tutto questo nell’ottica, ha ribadito il professor Cesareo, «di dare visibilità alle buone pratiche, che testimoniano e al contempo esemplificano i modi attraverso i quali può prendere corpo un’assunzione di responsabilità rispetto a specifici problemi e sfide da parte delle stesse imprese e di tutto il mondo del lavoro».

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Redazione

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