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Tuta blu, la divisa che ha fatto diventare credibile la modernità

19 luglio 2021

Tuta blu, la divisa che ha fatto diventare credibile la modernità

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"Lessico industriale", la nuova rubrica estiva del Sole 24 Ore, è un viaggio sui termini della cultura industriale. A curarla, ogni mercoledì per dieci settimane, il professor Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere e filosofia. La prima puntata, pubblicata il 14 luglio, è dedicata alle tute blu. Ne pubblichiamo uno stralcio.


Quasi più nessuno ormai racconta di operai, se non quando accadono gli incidenti sul lavoro, come se fossero diventati una categoria invisibile o estinta come i mammuth, per dirla con le parole di Antonio Pennacchi in un romanzo di qualche decennio fa. Eppure continuano a prestare manodopera, a subire una condizione ai margini, dove basta un messaggio WhatsApp per essere licenziati, com’è accaduto alla Gkn a Campi Bisenzio, vicino Firenze. Esistono, anche se non entrano nei canali d’informazione.

Si muovono uguali ai lavoratori dipinti da Fernand Léger in «Les Constructeurs» (1950), che indossano pantaloni sbiaditi e canottiere opacizzate dal sudore – uno solo ha i calzoni blu, in un gruppo che sorregge una trave pesante – ma dietro la grande impalcatura di metallo hanno lo sfondo di colore nella stessa tonalità del cielo mattutino. Questo monumentale olio su tela trasmette un’idea tutt’altro che evanescente del lavoro operaio: l’azione che compiono i personaggi è tipica di chi sta innalzando ponteggi perché i caratteri del moderno suggeriscono l’epica della progettualità. Lo avevano intuito i futuristi, agli inizi del Novecento, quando pensavano alla “Città che sale”: così intitolava Umberto Boccioni un suo movimentato quadro.

Gran parte del Novecento architettonico ha speso le sue migliori energie alla conquista degli spazi verticali, innalzando impalcature su cui camminano individui poco spaventati dall’altezza, salgono e scendono scale, spostano putrelle di acciaio, si attaccano alle corde, proprio come fanno gli operai carpentieri di Léger. Il quale sembra aver restituito dignità a una figura cruciale della modernità, a un personaggio conteso da scrittori, registi, pittori, che all’epoca del dipinto rischiava di essere schiacciato da una lettura troppo ideologica del suo ruolo, ridotto a pura marionetta nelle mani di chi intendeva combattere il fordismo. Così non è, e nel procedere del tempo «Les Constructeurs»anticipa di una trentina d’anni il racconto di un utensile, la chiave a stella, che Primo Levi mette nelle mani di Tino Faussone, montatore di gru, protagonista di un suo indimenticabile romanzo, uscito nel 1978. Anche in quest’opera si insiste sul tema dell’orgoglio operaio, che non significa rivendicazione o lotta di classe, ma dare spazio a un oggetto utile a innalzare gru fino al blu profondo del cielo, dove addirittura sarebbe possibile raccogliere la polvere caduta dalle stelle. Faussone è un collezionista di modernità, oltre che di arnesi. La sua è l’etica di chi non teme la fatica. Il suo raccontare è il manifesto di una civiltà tecnologica che non imbarazza, non indispone, non molesta e da cui l’umanità ne esce migliorata. La chiave a stella è un libro di un altro Novecento, alternativo a quello consueto, in cui industrializzare non coincide affatto con l’esercizio di sfruttare ed essere operai non significa provare insofferenza verso le regole del capitale. Qui sta la sua originalità.

Pochi altri autori hanno osservato i segni del moderno dalla stessa prospettiva: uno, forse, prima di lui, oggi dimenticato, su cui Elio Vittorini scommise la sua credibilità di editore. Sto parlando di Luigi Davì, meccanico tornitore per professione e autore di un libro a suo tempo celebrato, Gymkhana-Cross (1957), che narra di operai Fiat in sella a vespe e lambrette, soddisfatti del lavoro ai torni, felici di trovarsi nell’avventura tecnologica, con le sue liturgie, i suoi riti, che un’Italia prossima ad affacciarsi agli anni del benessere voleva celebrare in forma di nuova religione. Anche se con modalità diverse, Davì e Levi manifestano un sentimento di dignità e di fierezza, sono l’alfa e l’omega di una letteratura che li vede minoritari perché fra loro, in mezzo alle loro opere, si colloca un’affollata galleria di volti tristi e arrabbiati e non sarà per niente un caso se Italo Calvino, rivolgendosi per lettera a Vittorini il 15 maggio del 1956, metta Davì in contrapposizione a Ottiero Ottieri: il primo, diceva, destinato a darci «la faccia allegra e scooteristica del mondo industriale», il secondo, invece, definito «scrittore di carne triste». Di Ottieri, Einaudi stava pubblicando Tempi stretti (1957), un romanzo che risultava troppo documento per essere figlio dell’invenzione e troppo impressionato dalla lettura di un’opera immancabile nelle librerie di quegli anni: La condition ouvrière di Simone Weil (l’edizione italiana esce nel 1952). Più che di blu, il racconto della condizione operaia si tinge di nero, il colore della condanna e della morte. I personaggi sono rabbuiati dal senso di non appartenenza, da un disagio profondo, a cominciare da quell’Antonio Donnarumma, il protagonista del più noto tra i romanzi di Ottieri (Donnarumma all’assalto, 1959), che vorrebbe farsi assumere dalla Olivetti, a Pozzuoli, ma resterà per sempre deluso.


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Un articolo di

Giuseppe Lupo

Giuseppe Lupo

Docente di Letteratura italiana - Università Cattolica

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