Pubblichiamo la prima parte dell'editoriale del professore di Sociologia dell'Università Cattolica Mauro Magatti sul Corriere della Sera. La pandemia si differenzia dal dopoguerra perché non ci sono macerie e una classe dirigente giovane e piena di fiducia ma un’economia da ripensare in un Paese stanco e invecchiato.
In queste prime settimane di lavoro, il governo si sta muovendo in modo coerente con l’appello all’unità e all’amore per l’Italia con cui Mario Draghi ha concluso il suo discorso di insediamento, richiamandosi allo spirito di ricostruzione post bellica per affrontare i difficili passaggi che ci aspettano.
Oggi come allora, l’Italia si trova a dover gestire i postumi di un grave shock esterno negativo che, come sostengono diversi economisti, potrebbe anche diventate l’occasione per abbattere alcuni blocchi strutturali e così aprire una nuova fase di crescita.
E tuttavia la storia non si ripete mai allo stesso modo. E così il richiamo al momento forse più alto della nostra storia nazionale va poi calato nella realtà della situazione attuale.
Tra le tante differenze tra queste due congiunture storiche, tre mi paiono particolarmente utili per illuminare meglio il nostro tempo. Si parla di ricostruzione. Ma oggi non ci sono macerie. La pandemia ha lasciato molti morti, reso precari molti posti di lavoro, mandato in rovina molti commercianti e piccoli imprenditori. Ma non lascia sul terreno palazzi o ponti da rimettere in piedi, da cui ripartire concretamente. Attorno a noi non c’è la materialità della distruzione che l’esito di un conflitto bellico pluriennale si lascia dietro. Si aggiunga che, nel dopo guerra, l’agenda economico-politica era relativamente facile da scrivere: permettere l’accesso al benessere materiale a quella ampia parte di popolazione che lo doveva ancora conquistare. Oggi, al contrario, abbiamo un problema di sostenibilità (economica, ambientale, sociale) che ci chiede di cambiare i nostri modi di produrre e consumare.
Più che ricostruire oggi dobbiamo ripensare l’economia. Per questo, é importante la visione del futuro. Il mondo non va ricostruito, ma reinventato. E questo è necessario sia per riuscire a cogliere le opportunità di sviluppo che abbiamo davanti — cosa tutt’altro che scontata, vista la difficoltà di stesura del Recovery Plan — sia per scongiurare il rischio che tra la popolazione prevalgano sfiducia e scoramento. Sono tanti gli imprenditori che, viste le tante difficoltà, sono tentati di chiude-re le loro aziende. Ricostruire senza macerie significa riuscire a definire meglio il senso di quello che vogliamo fare. Ed è per questo che sostenibilità e digitalizzazione non possono essere viste in chiave esclusivamente tecnocratica ma come cardini di un nuovo modello di sviluppo che deve indicare quale «benessere», quale società vogliamo ora raggiungere.
Una seconda differenza fondamentale è che con la fine della seconda guerra mondiale era crollato un intero sistema di potere economico e politico. Quello che ruotava intorno al fascismo. La ricostruzione fu guidata dalla nuova classe dirigente, per lo più giovane che, tanto in politica quanto in economia, esprimeva - persino fisicamente - l’idea di un mondo nuovo che si andava facendo. Un rinnovamento che trasmetteva al paese il senso di fiducia che le cose potevano effettivamente cambiare.