NEWS | Milano

Come si racconta la morte?

06 maggio 2024

Come si racconta la morte?

Condividi su:

Come si racconta la morte? La domanda è inequivocabile e interroga tutti: giornalisti, comunicatori, medici e chi se la trova di fronte a causa della perdita di una persona cara. Su questo si è discusso nella tavola rotonda “Narrare la morte. Trovare le parole per raccontare un tabù” giovedì 2 maggio nella sede di Milano dell’Università Cattolica.

«La morte ci capita addosso, si può procurare a qualcun altro, oppure ce la si può procurare. Ma non si affronta mai la narrativa della morte», ha detto introducendo l’incontro il professor Marco Lombardi, docente di Sociologia e direttore del master in Giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale che ha moderato il dibattito al quale hanno partecipato Laura Silvia Battaglia, giornalista e direttrice delle testate della Scuola, Alessio Musio, docente di Filosofia morale e membro del Direttivo del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, Jacopo Pozzi, autore del podcast Morire. Viaggio nell’ultimo tabù e Alberto Scanni, oncologo, scrittore di Quel che resta di te (ed. Ancora) e padre di Matteo, direttore delle testate del Master, scomparso due anni fa.

Trattare la morte è uno dei doveri dei giornalisti e il rischio di spettacolarizzare il dolore o eccedere in dettagli che creano dipendenza e insensibilità e stimolano l'emulazione rende necessaria la deontologia. Battaglia, da inviata di guerra, spesso riporta la morte al pubblico: «La morte è sensoriale: puzza di bruciato, urina, decomposizione. La si può raccontare attraverso i numeri, modalità asettica e fredda, che taglia la morte dalla realtà oppure in modo sensazionale, che agisce sull’emotività del lettore e non rispecchia i fatti. Infine, la si può riportare facendo sperimentare al lettore qualcosa ed è quello fatto dall’Associated Press nel documentario su Mariupol e da Robert Fisk, nel reportage in Libano del 1982».

La morte è notiziabile, essendo unica per eccellenza. La pandemia è stato lo spartiacque nella sua narrazione, ha imposto ai giornalisti di affrontare l’imprevedibile e l’imponderabile. L’Ordine dei Giornalisti sta intervenendo nel creare un protocollo e lo dimostra il vademecum Il suicidio e i media. «Alcune situazioni vengono enfatizzate o presentate drammaticamente, soprattutto quando coinvolge un personaggio pubblico. Raccontare qualcosa che riguarda altri può provocare sfiducia nei pazienti se, dopo un intervento medico descritto come perfetto, una persona muore», è l’opinione di Alberto Scanni. Da medico è costantemente a contatto con la morte, ed è costretto a dire a un paziente che sta morendo: «L’operatore deve utilizzare al meglio la parola, il linguaggio non verbale e l’empatia. Non dobbiamo ammazzare le persone con una parola. Si incide sulla vita del paziente e della famiglia».

Per Alessio Musio «il tabù è dovuto al fatto che parliamo della morte, ma non del morire. Lavorare sul significato delle parole è il primo compito dei comunicatori. Nel dibattito giornalistico, si sfocia nello scontro quando si trattano eutanasia e fine vita. Se ne parla come se ci fosse solo l’esigenza di staccare la spina. Si perde la cognizione della morte, ma dovrebbe emergere il diritto del morire personale».
 


Jacopo Pozzi, invece, non ha messo la morte in un angolo. Ne ha raccontato il rapporto con cinquanta testimonianze. La realizzazione del podcast nasce dal suo legame con la morte: «Non è stato un progetto lavorativo, ma un’esigenza personale. Pensavo intorno ai vent’anni: se domattina non mi sveglio? Una notte ho deciso di voler ascoltare cosa agli altri lascia umanamente la morte, traducendo la loro storia in un momento di crescita”. Il giornalista si fa testimone dell’ultimo, sacro momento della vita, riflettendo sull’inizio e la fine del diritto di cronaca.

«La prima regola deontologica impone di dare dignità a chi non c’è più e a chi vive il lutto. Un caso riguarda Kevin Carter, che fotografò una bambina mentre veniva divorata da un avvoltoio in Sudan. Vinse il Pulitzer, ma si suicidò perché non riusciva a gestire il senso di colpa per non aver scacciato l’animale», è l'aneddoto di Battaglia. Le nuove tecnologie hanno modificato la comunicazione della morte, diffusa e immediata. Emerge il tema dell’oblio: dall’eredità alla cancellazione delle informazioni dopo la morte biologica. Quindi, nella nostra vita digitalizzata sta avvenendo un cambiamento del ricordo post mortem. Battaglia osserva che «nelle piattaforme le persone scrivono ai defunti. Come fosse un message in the bottle. Si pensa che quel filo digitale riesca a collegarci a chi che non c’è più».

Un articolo di

Alberta Pagani e Pietro Piga

Scuola di Giornalismo

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti