«La scomparsa di Matteo non lascia un vuoto. Lascia un pieno: la sua energia inesauribile è incredibilmente rimasta nell’aria e chiede che qualcuno ne raccolga il testimone, accettando il suo invito silenzioso a muoversi, a uscire, a darsi da fare». Le belle e toccanti parole dell'amico regista Armando Trivellini sono solo un esempio delle tante, tantissime, testimonianze di stima e affetto che in questa settimana hanno accompagnato la triste notizia della scomparsa, dopo una lunga malattia, di Matteo Scanni, direttore testate e coordinatore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica.
Matteo Scanni, un vuoto che lascia un pieno
Ex allievi, amici, colleghi. Lunghissima sarebbe la lista di chi, da tutto il mondo - ha dedicato un pensiero a Matteo. E in tanti, sabato 29 gennaio, sono arrivati a Milano presso la chiesa di San Pietro in Sala, per essere presenti all'ultimo saluto.
Bellezza, verità e responsabilità: l'eredità di Matteo Scanni
«Quello che ci lascia in eredità sono bellezza, verità e responsabilità ha ricordato Marco Lombardi, direttore della Scuola di Giornalismo - nella rabbia come nella squisita gentilezza questi tre aspetti trasparivano sempre e chi si avvicinava a lui li coglieva fin dall’inizio. Alla Scuola poi erano la bussola per la sua ciurma. Il suo insegnamento della professione era nel suo stile di vita “diritto”. Matteo insegnava a produrre bei pezzi, di quelli veri, che colpiscono e fanno pensare».
Matteo Scanni, l’amore per i reportage al servizio degli studenti
«Parlava poco, Matteo - ha scritto nel suo ricordo Laura Silvia Battaglia, che di Matteo è stata prima studentessa e poi compagna di viaggio come tutor della Scuola - ma quando parlava arrivava dritto e senza infingimenti. Lo faceva con tutti: allievi, ex allievi, docenti, direttori, familiari, con amici e nemici. Con deboli e potenti, soprattutto con i potenti. Se sapevi entrare nella sua psicologia e leggere il profondo senso di giustizia e di ricerca del perché delle cose sotto quella scorza di spine, trovavi il frutto del fico d’India: la dolcezza della comprensione, il gusto dell’ascolto, la succosità di un pensiero innervato di connessioni, e qualche asprezza improvvisa, qualche scatto d’ira che nasceva dall’indignazione nei confronti di un mondo e di uomini senza qualità. Non gli piacevano le cose fatte tanto per farle: la qualità, il massimo della qualità era il suo mantra. Dentro questa qualità, c’era posto solo per l’eccellenza, verso la quale si spingeva con tutto se stesso, forzando l’asticella del suo corpo, delle ore di sonno e di veglia, perché la mente viaggiava sempre oltre e noi sempre ad arrancargli dietro per inseguirlo».