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Donare il sorriso ai bambini senza sorriso

19 dicembre 2024

Donare il sorriso ai bambini senza sorriso

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Nel villaggio dei bambini senza sorriso il Natale può arrivare anche nei mesi estivi, perché accada è sufficiente che qualcuno disegni sul loro volto un po’ di felicità. Mohespur è un villaggio in Bangladesh, nel distretto di Dinajpur, una zona rurale del West Bengala, in cui vivono per lo più indigeni. Ci sono risaie a perdita d’occhio, i suoni della città sono un’eco lontana.

Arianna Pe’, 23 anni, studentessa di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è stata lì un mese intero, in missione grazie a un progetto universitario, e ci tornerà nella prossima estate per terminare la sua tesi di laurea magistrale.

«A Mohespur ho capito che il mio ruolo era di far sentire bambini gli stessi bambini. A differenza dell’immagine che tutti abbiamo delle missioni, in cui i bambini ridono nonostante la povertà e le condizioni difficili di vita, lì era differente. Non vedi la loro felicità. I ragazzi più grandi ti dicono che non hanno un futuro. E io ho capito cosa significhi donarsi completamente all’altro, mettendo da parte tutto quello che sei tu, i tuoi problemi quotidiani. Quei ragazzini chiedono solo di essere visti. Per questo lì si vive nel momento, l’unica cosa che conta è farli stare bene. Per questo Natale desidero solo che possano sentirsi bambini amati da Dio Padre».

L’interesse per i più piccoli ha portato Arianna Pe’ al campus di Piacenza, dove si è iscritta in “Progettazione pedagogica nei servizi per minori”. Poi il Bangladesh è diventato la pietra d’angolo della sua carriera universitaria. Ha raggiunto il Paese asiatico attraverso il Mex (Mission Exposure), percorso offerto dall’ateneo fondato da padre Gemelli, in collaborazione con il Centro pastorale dell’università e con il Pime (Pontificio istituto missioni estere), non prima di aver frequentato, qui in Italia, cinque fine settimana di formazione.

«È l’equipe educativa a scegliere la destinazione e i gruppi - racconta - ci si lascia condurre dove c’è più bisogno. A me è toccato il Bangladesh. Non nascondo che all’inizio ero un po’ preoccupata, avevo nella mente l’immagine di un’Asia caotica e stereotipata, mi sono ritrovata invece in un paradiso rurale, fatto di risaie, dove ho conosciuto persone vere».

A Mohespur, Arianna è stata accolta nella missione del Pime, guidata da padre Almir Azevedo, il missionario che gestisce quello che la ragazza dice «somigliare a un nostro collegio, in cui gli ospiti sono circa 150 fra bambini e ragazzi dai 6 ai 16 anni». Si seguono i bambini lungo tutta l’età scolastica. «Quando a 16 anni finisce la scuola qualcuno può andare all’università, ma nel posto in cui ero io lo facevano davvero in pochi».

«In quella regione si patisce ancora il retaggio delle caste indiane - spiega Pe’ - l’ascensore sociale quasi non esiste, gli indigeni in Bangladesh sono esclusi dalla società non per qualche legge che li ostacoli, ma per una cultura che li tiene ai margini».

Nell’ostello, femminile e maschile, arrivano bambini provenienti da contesti familiari difficili, che hanno perduto i genitori o mandati lì da famiglie numerose. «In Bangladesh non esiste nulla di simile ai nostri servizi sociali - dice la studentessa - dopo gli studi si va nei campi a lavorare. La scuola del villaggio, dove vanno bambini e ragazzi, offre un insegnamento di scarsa qualità. I ragazzi sono allora seguiti anche nella missione, dove approfondiscono un po’ gli studi e fanno qualche lavoro, oltre a vivere momenti di preghiera». La comunità di padre Almir è cristiana, ma i cristiani in Bangladesh sono solo lo 0,4%. A dispetto di una percentuale così bassa, il centro è un punto di riferimento per tutti, spiega Arianna Pe’.

Il ruolo della studentessa all’interno della comunità è stato educativo. «Ci era chiesto di creare relazioni, di farli sentire bambini». «È un aspetto per loro non secondario - spiega Pe’ - hanno condizioni di vita che li privano dell’infanzia, culturalmente parlando poi il bambino dà fastidio. Se c’è una festa, ad esempio, non ne fanno parte».

Con Camilla e Michele, i compagni con cui è partita, Arianna per tessere una relazione con i ragazzini usava giochi semplici, ad esempio palla prigioniera, oppure attività come la pittura ad acquerello, per donare a quei bambini un po’ di tempo in cui essere liberi. Altre volte si alleggeriva il peso del lavoro, magari con l’aiuto di un po’ di musica. «All’inizio erano straniti, poi vivevano meglio l’attività che dovevano svolgere» dice.

Per raccontare cosa le abbia restituito l’esperienza in Bangladesh, Arianna Pe’ estrae dai ricordi un episodio che «racchiude il significato dell’amore che ho respirato in quel Paese». «Giocavo sotto la pioggia con tre bambini: Soma, Pobon e Jesi. Eravamo nel loro villaggio solo da qualche giorno e già stavamo sperimentando la fatica di non avere una lingua in comune: cercavamo di capirci a gesti. A metà pomeriggio, tra una partita di calcio e l’altra, un monsone si abbatte su di noi: una pioggia così forte e calda non l’avevo mai vista e mi è venuto spontaneo iniziare a ridere, di una gioia vera, e a scherzare con i tre bambini rimasti, cercando di bagnarli… in pochi minuti mi si sono avvicinati, mi hanno preso per mano e mi hanno portato in una parte del giardino più adatta alle scivolate a piedi nudi perché ricoperta interamente di fango. Abbiamo corso, siamo caduti e ci siamo inzuppati di pioggia e fango dalla testa ai piedi. Ero felice come mai prima: l’amore non chiede un linguaggio per essere trasmesso, l’amore è l’unico linguaggio universale».

Anche per questo nel suo futuro c’è il Bangladesh che ritorna. «Nell’estate 2025 sarò nuovamente a Mohespur per fare della missione il caso studio della mia tesi. Studierò l’esperienza educativa che la missione del Pime tenta di portare avanti, dando spazi da vivere e calore a chi non ha potuto conoscere l’infanzia e l’adolescenza. Sull'opportunità di tornare là abbiamo convenuto con i docenti Monica Martinelli e Daniele Bruzzone, che sarà il mio relatore». «Ma dico la verità - confessa Pe’ - l’idea di tornare in Bangladesh l’avevo già avuta indipendentemente dalla tesi».

Un articolo di

Filippo Lezoli

Filippo Lezoli

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