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Il carcere: fra sovraffollamento e riscatto sociale

20 maggio 2024

Il carcere: fra sovraffollamento e riscatto sociale

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«Non è presente nell’agenda politica. Il carcere non porta voti». Fulvio Fulvi, giornalista di Avvenire ospite al Collegio Sant’Isidoro della sede piacentina dell’Università Cattolica, introduce così l’incontro “Cosa c’è dietro le sbarre? Il carcere tra sovraffollamento, salute e riscatto sociale”, organizzato nell’ambito di “Avvenire in Campus”, progetto che coinvolge firme illustri del quotidiano di ispirazione cattolica e personalità del mondo dell’informazione.

Davanti ai molti giovani intervenuti, Fulvi ha portato i numeri allarmanti che disegnano il quadro del sistema carcerario italiano. «Sulle 61mila persone che sono detenute nelle carceri italiane - dice - 19mila sono immigrati. Si contano più di 60 nazionalità. Solo 6.200 persone hanno avuto una condanna definitiva, il 10% del totale. Dei 61mila, 25mila hanno pene fino ai tre anni, minime: perché allora non pensare a strutture ad hoc per detenuti con pene basse? Potrebbero essere meglio aiutati a reinserirsi fuori dal carcere». Il dato dei suicidi impressiona, dice Fulvi: «Nel 2022 ce ne sono stati 84, nel 2023 sono stati 69 e, fino a ieri, 35 nell’anno in corso».

La presenza di Maria Gabriella Lusi, direttrice del carcere alle Novate, ha consentito di fare il punto anche sulla situazione della casa circondariale piacentina. Non prima, però, di avere incassato i complimenti di Fulvi. «Sono abituato a muovermi per diverse carceri italiane e la situazione che ho riscontrato a Piacenza è migliore rispetto a molte altre da me osservate» afferma il giornalista di Avvenire. Il sovraffollamento, ad esempio, che su scala nazionale è uno dei maggiori problemi delle carceri, a Piacenza con 399 detenuti su di una capienza massima di 416 posti «è tenuto sotto controllo» afferma la direttrice Lusi. Detto che alle Novate sono 229 gli agenti di polizia penitenziaria, poco sotto i 250 previsti dall’organico, e che il 70% dei detenuti è straniero, Lusi spiega che per un carcere è fondamentale essere parte del territorio in cui è inserito, non qualcosa di avulso. «L’istituto deve interagire con il territorio circostante - afferma - e noi stiamo crescendo insieme a quello piacentino. Il carcere può aiutare la società, restituendo persone non più pericolose, rispettose delle regole e degli altri cittadini».


La direttrice cerca anche di abbattere qualche luogo comune. «Il carcere - dice - non è un luogo statico, un posto dal tempo sospeso». È sufficiente l’arrivo di un detenuto problematico, spiega, per attivare tutta una serie di conseguenze. «Per ridurre il rischio suicidario - continua - fatto tra l’altro in crescita anche nella società libera, a Piacenza stiamo lavorando molto sull’accoglienza dei “nuovi giunti” e sulla dimissione dei detenuti. La presa in carico è sempre condivisa fra ispettore, medico, psicologo, criminologo, educatore. È importante conoscere le persone ed è giusto che il detenuto abbia la sensazione che qualcuno si stia prendendo cura di lui».

«L’immagine del carcere come luogo dove il detenuto si spegne non è corretta - sostiene ancora Lusi - ritengo occorra invece partire dalla vita, o meglio, dalla vitalità di chi lo frequenta, siano essi i detenuti, chi vi lavora, fino a chi lo dirige. Se non partiamo da lì, non raggiungiamo alcun obiettivo».

E di vita parlano ad esempio le numerose attività svolte nella casa circondariale di Piacenza, fra cui le “fragole del carcere” coltivate grazie alla cooperativa “Orto Botanico” e il laboratorio di scrittura autobiografica. A questo si collega Carla Chiappini, giornalista e membro dell’Associazione Verso Itaca, che da 24 anni si occupa del tema e che in sedici istituti si è occupata di scrittura autobiografica. «Mai come oggi si parla tanto del carcere - assicura Chiappini - lo si fa però spesso senza andare in profondità nelle questioni affrontate». Sarebbero tante, dice la giornalista, che ne cita tre. «A Parma lavoro con alcuni ergastolani ostativi - dice - occorrerebbe confrontarsi sulle azioni per rieducare persone che non usciranno più dal carcere. Andrebbe inoltre affrontata la questione legata ai detenuti iscritti all’università: può una persona privata temporaneamente della libertà raggiungere gli standard richiesti all’esterno? E poi c’è il tempo vuoto, definito dall’ex garante nazionale una tortura».

Un articolo di

Filippo Lezoli

Filippo Lezoli

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