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La forza etica della letteratura contro il ritorno della tortura

28 marzo 2023

La forza etica della letteratura contro il ritorno della tortura

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Sono tante le norme internazionali che vietano la tortura o qualsiasi altro trattamento inumano o degradante. Il divieto “eterno” della tortura statuito nell’ordinamento giuridico tedesco o l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che lo indica anche come unico diritto inalienabile, ne sono la manifestazione più evidente. Tuttavia, l’enorme arsenale di disposizioni contro la violenza esercitata dal potere non è bastato a zittire l’animato dibattito sulla «legittimazione o ri-legittimazione della tortura» che ha preso piede nel corso del XXI secolo, anche in mondi che non potevamo immaginare.

A richiamare l’attenzione sull’affermarsi di una «nuova apologetica della tortura», è stato Gabriele Fornasari, ordinario di Diritto penale all’Università di Trento dove dirige anche l’Osservatorio sulla giustizia di pace, conciliativa e riparativa. E lo ha fatto giovedì 9 marzo durante il terzo incontro del ciclo seminariale “Giustizia e letteratura”, giunto quest’anno alla sua tredicesima edizione, e dedicato ad analizzare la violenza nelle sue diverse sfaccettature: individuale, istituzionale, verbale. Una riflessione a più voci su un tema tornato prepotentemente alla ribalta, soprattutto all’indomani dell’11 settembre 2001, e che si è sviluppato attorno all’analisi di due opere letterarie: “Nella colonia penale” di Franz Kafka, scritto nel 1914, e “Aspettando i barbari” di John Maxwell Coetzee, pubblicato nel 1980, distanti nel tempo ma accomunate proprio dalla medesima rappresentazione della tortura corporea.

“Aspettando i barbari”, il cui titolo è tratto da una poesia di Konstantinos Kavafis, è un romanzo breve, composto da sei capitoli narrati in prima persona da una voce anonima. È un racconto intriso di filosofia, profondamente concettuale e allegorico. Dove l’«allegorismo» assume un ruolo preciso, ed «è impiegato per interpretare questioni centrali: il potere, la devastazione della dignità umana operata attraverso la tortura e il rapporto dell’uomo di legge con la fallibilità della legge stessa rispetto all’ideale di giustizia», ha spiegato Roberta Gefter Wondrich, docente di Letteratura inglese all’Università di Trieste, e tra i discussant dell’incontro “Il corpo torturato dal potere: dalla Colonia penale di Kafka ad Aspettando i barbari di Coetzee”, introdotto da Gabrio Forti, direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale (Asgp).

Secondo la professoressa Gefter Wondrich la straordinarietà dell’opera di Coetzee sta proprio nel suo «esplorare la connivenza morale dell’uomo di legge con le devianze del potere». Ma anche nella «rappresentazione della tortura in cui il corpo, con il suo dolore e con i suoi segni, diventa una sorta di testo letterario». Del resto, è proprio nell’intreccio tra corpo, dolore e segno grafico impresso nella carne che si può cogliere il legame con Kafka. Non a caso Coetzee, che ne è il suo maggiore erede tra gli autori della letteratura contemporanea, è uno scrittore che invita a riflettere sul fatto che la letteratura è evento proprio perché ha una «dimensione etica imprescindibile». Difatti, tutta la sua opera è incentrata sulla responsabilità della scrittura, che così può essere una risposta etica al collasso del senso che si trova nell’esperienza dell’abuso, del potere, della distruzione della dignità dell’essere umano.

Per questo motivo “Waiting for the Barbarians” s’inserisce perfettamente «in quello spazio aperto della letteratura “davanti alla legge”» e rappresenta «con grande forza la potenzialità, la capacità con cui la sfera del diritto e della legge pone la narrazione letteraria di fronte a una richiesta di coinvolgimento e di posizionamento etico che dall’autore passa al lettore e che da lui si estende ai molti». Una richiesta, ha specificato la docente dell’Università di Trieste, «che viene posta anche di fronte a una comprensione e a una drammatizzazione della complessità dell’agire umano nello stato di diritto e nelle sue sovversioni, nelle dinamiche del potere, nelle sue esclusioni e involuzioni dei soggetti e che, pertanto, rimanda a un discorso etico e politico che si può esprimere proprio in quello spazio di indeterminatezza e molteplicità che è la dimensione imprescindibile della letteratura».

 

 

 

Il significato etico, ma non solo. Per il professor Fornasari, «l’opera di Coetzee, con la forza tipica dell’artista, apre la mente all’aberrazione di quello che ho chiamato il neo-giustificazionismo o meglio la nuova apologetica della tortura» e che trova persino in Niklas Luhmann, tra i più importanti sociologi del diritto del tardo Novecento, uno dei suoi intellettuali più influenti. Ora, secondo Fornasari, quello che nella tortura viene meno è soprattutto il riconoscimento della dignità dell’altro. Il torturatore difatti è addestrato, prima ancora che a maneggiare strumenti per il supplizio del corpo, a individuare nell’altra persona un soggetto che non merita dignità. La tortura non è solo un atto, non fa perdere alla vittima solo il controllo del corpo e della psiche ma la fiducia nel mondo. Il torturato si vede trasformato in oggetto, in una entità non più dotata di personalità e impossibilitata a contare sulla solidarietà. Da parte sua il torturatore, così com’è ben descritto da Coetzee, si caratterizza per «una micidiale, tremenda miscela di insicurezza e onnipotenza».

Un dibattitto rischioso, quello attorno alle giustificazioni possibili della tortura, visto che anche i sostenitori delle medesime additano come sempre ‘estreme’, in quanto inizio di un piano inclinato in cui facilmente si può cadere finendo poi col giustificare tout court la tortura. Di qui allora la formidabile lezione che l’autore sudafricano dà al giurista. «Come mirabilmente può fare solo l’artista e non colui che per mestiere scrive le leggi, “Aspettando i barbari” coniuga entrambi gli argomenti che condannano la tortura: quello filosofico e aprioristico, che la qualifica come un tabu, e quello giuridico-politico, che vi individua l’attacco più pericoloso al principio cardine della tutela della dignità umana».

Un aspetto, quello relativo alla scrittura delle leggi, ripreso anche dal professor Gabrio Forti, che ha fornito alcune ipotesi di lettura, con riverberi penalistici, dell’enigmatico racconto di Kafka “Nella colonia penale”, che è anche la prima trattazione letteraria di una tortura descritta nei dettagli. D’altronde, quando il giurista scrive le leggi, per dirla con un’espressione del drammaturgo tedesco Friedrich Hebbel, è come se “intingesse la penna nel sangue”. Ossia anche «il giurista in certi momenti avverte la percezione di come quella norma sia stata formulata in modo da cogliere essenzialmente l’umano che è in gioco». E che, dunque scrivere la legge, significa «pensare al corpo e al sangue delle persone, degli esseri umani che sono coinvolti, della vittima, ad esempio, di colui che tecnicamente, è il titolare del bene giuridico ovvero della persona in carne ed ossa che direttamente o indirettamente subisce le conseguenze del fatto», ha chiarito il professor Forti. Non a caso, il buon legislatore nell’antichità era spesso un poeta che sapeva “immaginare”, «perché la buona legge è quella che dura nel tempo e quindi con la stessa fantasia del letterato e del poeta riesce a trasfondere nelle parole della legge mondi e umanità che non si hanno sotto gli occhi».

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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