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Violenza sulle donne, infrangere il silenzio senza urlare

23 aprile 2024

Violenza sulle donne, infrangere il silenzio senza urlare

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«Avevo sedici anni, portavo jeans e magliette a maniche corte e avevo un ragazzo, ero innamorata della vita. Nel 2006 ho iniziato a lavorare in una cartolibreria perché mia madre doveva crescere sei figli da sola». Non immaginava Amani El Nasif, che dopo pochi mesi sarebbe cominciata la sua battaglia più dura per la libertà.

Autrice dei due libri Siria mon amour e Sulla nostra pelle, Amani è oggi una donna autonoma che è tornata a vivere in Italia, a Bassano del Grappa dove è cresciuta dall’età di tre anni, dopo essere stata reclusa nella sua terra d’origine per trecento novantanove giorni, promessa sposa a un cugino del padre.

Lunedì 22 aprile la giovane ha raccontato la sua storia in Università Cattolica a Milano durante l’incontro “Silenzio infranto: contro la violenza sulle donne” nell’ambito degli eventi promossi dal “Progetto Genesi” curato da Ilaria Bernardi insieme con l’Ateneo.

«Il compito di una università è quello di infrangere il silenzio come modo per dare risonanza a fenomeni sociali che, se censurati, rischiano di lavorare sott’acqua minacciando le nostre relazioni» – ha dichiarato in apertura dell’incontro Raffaella Iafrate, prorettrice delegata del rettore alle Pari opportunità. 

Quello che succede normalmente, e che è assolutamente umano, è che noi mettiamo in atto meccanismi di difesa davanti al male provocato da certe realtà e vediamo solo quello a cui siamo abituati e che vogliamo vedere, non ciò che realmente è. «Facciamo diventare invisibili fenomeni di realtà inaudite di sopruso – ha aggiunto la prorettrice –. Ma solo infrangendo il silenzio, solo dando voce all’in-audito, all’im-pensabile e al dolore che queste realtà generano è possibile attraversare questo dolore e renderlo generativo e utile per chi ascolta e vede. Questa risposta generativa l’ho trovata nei libri di Amani che fa diventare una mission il racconto della sua storia, rendendo visibile ciò che per noi non lo è».    
 

 

Con la scusa di rifare il passaporto perché il cognome era stato riportato sbagliato sul documento, Amani è tornata in Siria con la madre pensando di restare solo pochi giorni. Ma il viaggio carico di speranza e vissuto all’inizio con gioia perché «Aleppo la sentivo, sentivo che lì c’erano le mie radici», si è trasformato in una prigionia forzata e motivata dal tentativo di costringerla a sposarsi con un cugino sconosciuto. Comprese le reali intenzioni della sua famiglia, Amani ha attraversato la disperazione ma ha deciso che avrebbe combattuto fino alla fine, disposta a subire maltrattamenti e soprusi. Lei ce l’ha fatta e oggi sente la responsabilità di raccontare la sua storia e quella di tante ragazze che non si sono salvate. Per questo da undici anni va nelle scuole a fare formazione e prevenzione.

Dal racconto di Amani non emerge risentimento, anzi amore per la patria, rispetto per la sua famiglia, ma si percepisce forte l’istanza di vita. Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale in Cattolica, ha spiegato che l’induzione e la costrizione al matrimonio sono dei reati e che in Italia il diritto penale di fronte a una storia come quella di Amani porrebbe una pena. Una risposta nello stesso tempo troppo semplice e troppo brutale. «Dentro la narrazione standard le donne sono soggetti da mettere sotto protezione (legge penale, provvedimenti contro la violenza alle donne, codice rosso, braccialetti elettronici), ma questo non finisce per essere simile a quello che Amani racconta?  – si è domandata la docente –. Ho visto la rettitudine di donne che hanno subito forme terribili di aggressione fisica e morale fronteggiare chi aveva fatto loro queste cose con una limpidezza dello sguardo che costringeva l’aggressore ad abbassarlo. Nell’infrangere il silenzio stiamo attenti a non farlo urlando». 

«Io non mi sarei mai arresa – ha aggiunto Amani –. Guardavo mio cugino finchè mi picchiava e gli dicevo che tanto non l’avrei mai sposato. Non avrei potuto lasciare tutti i miei sogni in pasto a loro. Avevo una resilienza che non si abbassava mai. Ho anche pensato di farla finita ma avrebbero vinto loro e io non volevo». 

Poi è arrivato il momento della consapevolezza. Una volta tornata in Italia grazie all’aiuto di uno zio, Amani ha smesso di parlare con la madre per un anno, non capendo come avesse potuto farle tutto questo, ma è arrivata a comprendere che non possiamo giudicare i comportamenti degli altri: «Che madre sarei stata se non mi fossi rapportata con lei e se non avessi perdonato? Negli ultimi anni lei rispecchia la madre che io vorrei essere».

Nell’Islam il matrimonio non è un sacramento, è un contratto tra lo sposo e il tutore legale della sposa. «Già qui si vede la disparità – ha spiegato Riccardo Redaelli, docente di Storia e istituzioni dell’Asia in Cattolica che da 35 anni lavora nel Medioriente allargato –. Nel mondo tribale il matrimonio combinato è una realtà». 

Una parola sulla Siria non poteva mancare. Redaelli l’ha definita «la più grave catastrofe umanitaria del secolo scorso. Il 50% delle persone sono rifugiati, Aleppo è stata distrutta, i morti sono centinaia di migliaia».

Eppure, anche nel buio più fitto si può intravvedere la luce. Come ha detto Mazzucato, «ogni cambiamento passa dal primo passo di molti altri difficili». 

Amani ha mantenuto il sorriso per tutto il tempo dell’incontro, pur vivendo la fatica di un racconto che ogni volta ravviva la cicatrice, e ha lanciato un appello perché ciascuno lo possa raccogliere: «La lotta per la libertà delle donne e la protezione delle spose bambine richiede un impegno globale e un approccio multi-livello. È necessario un sostegno sia a livello legislativo che sociale per promuovere norme e valori che rispettino la dignità e l’autonomia delle donne e delle ragazze. Questo significa lavorare per abolire leggi che discriminano le donne, promuovere l’istruzione delle ragazze e sensibilizzare sulle conseguenze devastanti dei matrimoni precoci». 
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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