Con la scusa di rifare il passaporto perché il cognome era stato riportato sbagliato sul documento, Amani è tornata in Siria con la madre pensando di restare solo pochi giorni. Ma il viaggio carico di speranza e vissuto all’inizio con gioia perché «Aleppo la sentivo, sentivo che lì c’erano le mie radici», si è trasformato in una prigionia forzata e motivata dal tentativo di costringerla a sposarsi con un cugino sconosciuto. Comprese le reali intenzioni della sua famiglia, Amani ha attraversato la disperazione ma ha deciso che avrebbe combattuto fino alla fine, disposta a subire maltrattamenti e soprusi. Lei ce l’ha fatta e oggi sente la responsabilità di raccontare la sua storia e quella di tante ragazze che non si sono salvate. Per questo da undici anni va nelle scuole a fare formazione e prevenzione.
Dal racconto di Amani non emerge risentimento, anzi amore per la patria, rispetto per la sua famiglia, ma si percepisce forte l’istanza di vita. Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale in Cattolica, ha spiegato che l’induzione e la costrizione al matrimonio sono dei reati e che in Italia il diritto penale di fronte a una storia come quella di Amani porrebbe una pena. Una risposta nello stesso tempo troppo semplice e troppo brutale. «Dentro la narrazione standard le donne sono soggetti da mettere sotto protezione (legge penale, provvedimenti contro la violenza alle donne, codice rosso, braccialetti elettronici), ma questo non finisce per essere simile a quello che Amani racconta? – si è domandata la docente –. Ho visto la rettitudine di donne che hanno subito forme terribili di aggressione fisica e morale fronteggiare chi aveva fatto loro queste cose con una limpidezza dello sguardo che costringeva l’aggressore ad abbassarlo. Nell’infrangere il silenzio stiamo attenti a non farlo urlando».
«Io non mi sarei mai arresa – ha aggiunto Amani –. Guardavo mio cugino finchè mi picchiava e gli dicevo che tanto non l’avrei mai sposato. Non avrei potuto lasciare tutti i miei sogni in pasto a loro. Avevo una resilienza che non si abbassava mai. Ho anche pensato di farla finita ma avrebbero vinto loro e io non volevo».
Poi è arrivato il momento della consapevolezza. Una volta tornata in Italia grazie all’aiuto di uno zio, Amani ha smesso di parlare con la madre per un anno, non capendo come avesse potuto farle tutto questo, ma è arrivata a comprendere che non possiamo giudicare i comportamenti degli altri: «Che madre sarei stata se non mi fossi rapportata con lei e se non avessi perdonato? Negli ultimi anni lei rispecchia la madre che io vorrei essere».
Nell’Islam il matrimonio non è un sacramento, è un contratto tra lo sposo e il tutore legale della sposa. «Già qui si vede la disparità – ha spiegato Riccardo Redaelli, docente di Storia e istituzioni dell’Asia in Cattolica che da 35 anni lavora nel Medioriente allargato –. Nel mondo tribale il matrimonio combinato è una realtà».
Una parola sulla Siria non poteva mancare. Redaelli l’ha definita «la più grave catastrofe umanitaria del secolo scorso. Il 50% delle persone sono rifugiati, Aleppo è stata distrutta, i morti sono centinaia di migliaia».
Eppure, anche nel buio più fitto si può intravvedere la luce. Come ha detto Mazzucato, «ogni cambiamento passa dal primo passo di molti altri difficili».
Amani ha mantenuto il sorriso per tutto il tempo dell’incontro, pur vivendo la fatica di un racconto che ogni volta ravviva la cicatrice, e ha lanciato un appello perché ciascuno lo possa raccogliere: «La lotta per la libertà delle donne e la protezione delle spose bambine richiede un impegno globale e un approccio multi-livello. È necessario un sostegno sia a livello legislativo che sociale per promuovere norme e valori che rispettino la dignità e l’autonomia delle donne e delle ragazze. Questo significa lavorare per abolire leggi che discriminano le donne, promuovere l’istruzione delle ragazze e sensibilizzare sulle conseguenze devastanti dei matrimoni precoci».