La Giornata mondiale della popolazione si celebra l’11 luglio di ogni anno ed è un'occasione per riflettere sulle sfide e le opportunità legate alla crescita della popolazione mondiale. La ricorrenza fu inaugurata dal consiglio direttivo del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite nel 1989. L'idea di creare la celebrazione fu ispirata dall'interessamento pubblico sollevato dalla "giornata dei 5 miliardi" caduta nel giorno 11 luglio 1987, data in cui approssimativamente la popolazione mondiale raggiunse la quota di 5 miliardi. Per quanto riguarda l’Italia, oggi in particolare si sta riscontrando una delle trasformazioni demografiche più significative della sua storia moderna: da un lato si registra da anni uno dei tassi di natalità più bassi d'Europa, dall’altro si assiste invece a un crescente fenomeno di emigrazione giovanile verso l'estero. In occasione della Giornata celebrativa il professor Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica, fa un’analisi di questa doppia dinamica che sta ridisegnando il volto della società italiana.
Professor Rosina quali sono i dati più recenti sui tassi di natalità tra i giovani italiani e come si confrontano con il resto d'Europa?
«Il numero medio di figli per un ricambio generazionale equilibrato è 2,1. La maggioranza dei paesi del mondo si trova su valori inferiori a tale livello. L’Europa nel suo complesso è scesa sotto 1,5. L’Italia nel 2024 si è inabissata sotto 1,2. La questione non è semplicemente "quanti figli", ma anche "quando" e, ancor più, "in quali condizioni": nel nostro paese la nascita del primo figlio avviene mediamente più tardi che altrove, in grande maggioranza oltre i 30 anni, segno di un passaggio all’età adulta sempre più posticipato e incerto».
«I giovani italiani non sono meno desiderosi di diventare genitori rispetto ai loro coetanei europei, ma si trovano a scegliere dentro contesti che non favoriscono la realizzazione dei loro progetti di vita: instabilità lavorativa, bassi salari, carenza di politiche abitative e servizi per l’infanzia. In molti altri Paesi europei –come la Francia e la Svezia – politiche più solide di sostegno alle famiglie e alla conciliazione tra lavoro e vita privata consentono di contenere maggiormente il calo della natalità. In Italia, invece, continuiamo a trattare la genitorialità come un costo individuale, senza riconoscerne pienamente il valore sociale».
Come sta cambiando il quadro demografico italiano a causa della migrazione giovanile verso altri paesi?
«L’emigrazione giovanile rappresenta uno dei fenomeni più sottovalutati del cambiamento demografico italiano. La perdita dei giovani, ancor più in un paese che ne ha pochi, porta ad un triplo danno: il costo di averli formati e persi; il mancato ritorno (produttivo e riproduttivo) che si sarebbe ottenuto se fossero rimasti; assieme al rendere demograficamente più solidi e competitivi i Paesi con cui ci confrontiamo sul mercato internazionale».
«A muoverli in uscita non sono solo le opportunità di carriera e il livello di salario. I progetti di mobilità delle nuove generazioni sono sempre più legati a scelte che inglobano condizioni di benessere più in generale, che riguardano quindi anche la vivibilità, l’efficienza della pubblica amministrazione, la qualità dei servizi di welfare, compresi quelli di armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro. La difficoltà dell’Italia nel trattenere le sue nuove generazioni risiede proprio nella carenza di contesti all’altezza delle loro sempre più alte aspirazioni. La mobilità geografica è di fatto diventata una risposta alla mobilità sociale bloccata. Per questo essere attrattivi verso i giovani – italiani e stranieri – dovrebbe diventare una priorità strategica. Diversamente, il rischio è che il Paese invecchi non solo nei numeri, ma anche nella sua capacità di innovare, essere dinamico e immaginare il futuro».
In quale modo potrebbero evolversi i rapporti intergenerazionali con l'ulteriore invecchiamento della popolazione? In particolare, se si considera la situazione della "sandwich generation", che si trova nel pieno dell'impegno lavorativo e, contemporaneamente, anche schiacciata tra carico dei genitori anziani e sostegno ai figli in difficoltà a conquistare una autonomia e un ingresso solido nel mondo del lavoro?
«L’invecchiamento della popolazione non è solo un fatto demografico, ma una questione profondamente sociale e culturale. La cosiddetta “generazione sandwich”, che corrisponde a chi è nella fase della vita tra i 45 e i 60 anni, si trova sempre più spesso a sostenere contemporaneamente due fronti: da un lato genitori anziani con bisogni di cura crescenti, dall’altro figli adulti che faticano a raggiungere una piena indipendenza economica. Questo duplice carico rischia di minare la qualità della vita, il benessere psicofisico e la capacità produttiva di una coorte che rappresenta l’asse portante del sistema lavorativo e familiare».
«Se non si interviene per riequilibrare i carichi e valorizzare i legami tra generazioni, si rischia di trasformare la solidarietà familiare da risorsa a fattore di stress e diseguaglianza. Occorrono politiche che rafforzino i servizi di assistenza agli anziani e che al tempo stesso facilitino l’accesso al lavoro stabile e dignitoso per i giovani. La sfida vera non è gestire l’invecchiamento della popolazione con modelli culturali e di welfare del XX secolo, ma mettere le basi di una società della longevità che sia sostenibile e valorizzi tutte le fasi della vita in coerenza con le trasformazioni del nuovo secolo».