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11 settembre, vent’anni dopo. Usa allo specchio, vulnerabili e insicuri

11 settembre 2021

11 settembre, vent’anni dopo. Usa allo specchio, vulnerabili e insicuri

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In questi giorni, il ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre coincide con la fine dell’esperienza occidentale in Afghanistan e il ritorno al potere, a Kabul, dell’Emirato islamico del Talebani. Da più parti si è voluta vedere, in questa coincidenza, una forma di circolarità della storia: una sorta di chiusura della parentesi aperta con gli attacchi contro il Pentagono e le Torri gemelle e una parabola sulla fragilità degli Stati Uniti, passati dal rango di lonely superpower dei primi anni Novanta a quello attuale di potenza sconfitta e umiliata nelle sue ambizioni ‘neo-imperiali’. Come durata e impegno umano e materiale, quello in Afghanistan è stato il più massiccio sforzo di nation building tentato da Washington e dalla comunità internazionale; uno sforzo che ha cercato la sua legittimazione (seppure indiretta) proprio nei fatti dell’11 settembre. In vent’anni, per l’impegno in Afghanistan, i soli Stati Uniti hanno speso complessivamente circa 2,3 trilioni dollari (un trilione per il solo bilancio del Dipartimento della Difesa), mentre in termini umani la guerra è costata la vita a 2.461 uomini e donne delle forze armate, quasi 4.000 contractors e 1.144 militari dei Paesi alleati; senza contare le perdite delle forze di sicurezza afgane (stimate fra 66.000 e 69.000 uomini, secondo le varie fonti) e i morti fra la popolazione civile, stimati in oltre 47.000, con un numero imprecisato di feriti e oltre 2,2 milioni di profughi e internally displaced people.

Il peso di queste cifre si farà sentire nei prossimi anni. Complice la politica di riduzione dalla pressione fiscale perseguita dalle amministrazioni repubblicane e l’allargamento delle maglie dell’intervento pubblico voluto da quelle democratiche, larga parte dei costi sostenuti da Washington in Afghanistan è stata finanziata ‘a debito’, generando una spesa per interessi che si stima raggiungerà i 5,6 trilioni di dollari entro il 2050. Nello stesso periodo, gli oneri per i programmi di assistenza a veterani e invalidi (circa quattro milioni di persone sommando le campagne in Afghanistan e in Iraq) sono previsti crescere fino a un totale stimato di altri due trilioni di dollari. L’afflusso di rifugiati (l’amministrazione Biden si è già impegnata ad accoglierne 95.000 nei prossimi dodici mesi, chiedendo al Congresso un finanziamento di 6,4 miliardi di dollari) è un'altra voce destinata a pesare sull’elenco delle passività, una voce che acquista valore particolare in un Paese come gli Stati Uniti di oggi, in cui le questioni dell’immigrazione e delle diseguaglianze socioeconomiche sono diventate punti centrali dell’agenda politica. I vent’anni di presenza in Afghanistan sono, quindi, destinati a pesare a lungo, sia sulle tasche del contribuente americano, sia sulla polarizzazione della società in cui questo vive, configurandosi così come una delle eredità più durature dell’11 settembre.

Forse anche per questo, l’anniversario degli attentati sembra avvicinarsi fra forti tensioni. Negli anni, la solidarietà patriottica delle prime commemorazioni è gradualmente sfumata, dando posto da un lato alla ritualità un po’ stanca della ripetizione, dall’altro a un crescente malcontento sotterraneo. Nonostante la pubblicazione nel 2004 dei risultati della commissione d’inchiesta voluta dal Congresso, il dibattito sulle responsabilità politiche dell’attentato (in particolare riguardo a un possibile coinvolgimento ad alto livello delle autorità saudite nella vicenda) è ancora vivo, così come è vivo quello sulle eventuali complicità interne nel nascondere le prove di tale coinvolgimento. La recente decisione dell’amministrazione Biden di declassificare il materiale ancora in mano alle varie agenzie ed enti governativi è giunta solo su pressione delle associazioni dei familiari delle vittime degli attentati (che negli ultimi mesi hanno avviato una massiccia campagna per rilanciare la ‘pista saudita’) e non pare destinata a rasserenare gli animi. Fra gli effetti duraturi dell’11 settembre vi è, infatti, anche un diffuso senso di vulnerabilità. Dal 2002, nella survey annuale delle priorità politiche condotta dal Pew Research Center, la difesa del Paese da possibili attacchi terroristici figura sempre ai primi posti; un elemento che contrasta marcatamente con la natura transitoria delle trasformazioni indotte dell’attentato che altre ricerche hanno evidenziato.

A vent’anni dall’11 settembre, ciò che gli Stati Uniti vedono guardandosi allo specchio è, quindi, un Paese che continua a sentirsi vulnerabile e insicuro; un Paese, soprattutto, che dalla fine degli anni Novanta sembra fare fatica a ritrovare un posto nel mondo dopo che le sue leve di potenza sono state progressivamente erose. Il lungo impegno nella ‘Global War on Terror’ ha avuto un peso in questo processo, contribuendo, fra l’altro, ad approfondire le divisioni interne e ad allontanare da Washington molti dei suoi tradizionali alleati. Tuttavia, le radici del cambiamento si trovano a monte degli attentati e riflettono anzitutto le difficoltà di Washington nell’adattarsi al contesto internazionale del post-guerra fredda. In quest’ottica ‘di lungo periodo’, gli attacchi contro il Pentagono e le Torri gemelle sono solo una tappa in un percorso ancora in buona parte da compiere. Un’altra tappa è la scelta di chiudere definitivamente la parentesi afgana: una scelta politicamente difficile, presa da un Presidente che già nel 2009, quando era Vicepresidente nell’amministrazione Obama, si era detto contrario al surge militare voluto dalla Casa Bianca, evidenziando l’impossibilità di giungere a una soluzione puramente militare del problema afgano e la mancanza di una riflessione credibile intorno agli obiettivi strategici che gli Stati Uniti si prefiggevano di raggiungere nel Paese.

Un articolo di

Gianluca Pastori

Gianluca Pastori

Docente di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa - Università Cattolica

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