Fin dai primi mesi di vita i bambini maneggiano gli smartphone e spesso crescono insieme a tablet, smart toys e smart speaker. La domanda su cui si interrogano educatori ed esperti è ormai sempre la stessa: questi oggetti sono risorse o pericoli?
Venerdì 30 settembre il tema è stato trattato durante l’incontro “La digitalizzazione dell’infanzia” che ha aperto l’anno accademico 2022/23 della laurea magistrale dell’Università Cattolica in Media Education.
«Da una ricerca longitudinale del 2020 che ha monitorato per diciotto mesi un campione rappresentativo di genitori italiani con almeno un figlio minore di 8 anni è emerso che oltre il 40% delle famiglie aveva uno smart speaker come Alexa o Googlehome, ai quali si aggiungono poi tv smartphone, tablet, giocattoli connessi a internet» - ha raccontato Giovanna Mascheroni, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università Cattolica e membro del Management Team di EU Kids Online. Oggetti come gli smart speaker non sono pensati per i bambini, considerando che sono in relazione con loro negli ambienti domestici, ma sono un’importante risorsa dal punto di vista economico perché generano dati. E sull’utilizzo di questi dati si apre un dibattito.
I genitori sono attenti ai rischi della datizzazione (o datificazione) ma tendono a preoccuparsi di più di quelli che hanno conseguenze immediate (come nel caso della visione di video e giochi violenti o dello sharenting della vita dei figli sui social network), più che il contrario, come nel caso della tutela della privacy di cui si ha mediamente una consapevolezza limitata.
Allargando l’orizzonte, la datizzazione pone interrogativi in diversi ambiti. Uno riguarda la non necessità di cercare prodotti che interessano perché gli algoritmi anticipano già gli interessi della persona e addirittura della famiglia. Un altro, sul piano epistemologico, è relativo alle conseguenze, per i bambini e per gli adulti, provocate dai sistemi di accesso al welfare sanitario o all’housing sociale, per fare due esempi. I cosiddetti allocational harms (che derivano dall’uso di algoritmi e processi decisionali e automatizzati) provocano conseguenze nell’allocazione delle risorse e in particolare discriminazioni ed esclusione sociale.
Il tema è complesso e interpella anche i decision makers. Come ha dichiarato introducendo l’incontro, Piermarco Aroldi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università Cattolica e coordinatore del corso in Media Education, «c’è un crescente interesse delle autorità politiche, dei rappresentanti delle istituzioni a livello nazionale e locale sull’esperienza quotidiana online di bambine e bambini. Al tempo stesso c’è il tema della ricerca accademica ed educativa perché quando si fa ricerca con i minori sull’esperienza digitale c’è una dimensione etica da considerare».
Su questo aspetto è intervenuto Silvio Premoli, docente di Pedagogia generale e sociale in Università Cattolica e Garante per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Città di Milano. Il Garante innanzitutto vigila sulle condizioni delle bambine, dei bambini e degli adolescenti assolvendo quattro compiti: la promozione dei loro diritti, il monitoraggio e l’advocacy, la risposta alle segnalazioni individuali e lo sviluppo della partecipazione dei cittadini minorenni. Rispetto al contesto digitale in cui operano i minori si possono esprimere preoccupazioni relative a cyberbullismo, fake news, manipolazioni, tutti pericoli che inducono azioni di protezione dei minori. La difesa dei loro diritti passa, allora, attraverso il disegnare interventi e politiche a loro favore. «Come sottolinea una recente ricerca di Save the children, se nel caso delle competenze informatiche di base la mancanza di competenze è fortemente associata a bassi livelli di reddito e di istruzione dei genitori, oltre che alla limitata presenza di device tecnologici in casa, la privazione delle capacità di definire correttamente se stessi, la propria immagine e il rapporto con gli altri nel mondo virtuale o di non cadere in manipolazioni e fake news riguarda, invece, tutti i bambini a prescindere dal livello socio-economico delle famiglie» - ha spiegato Premoli.
Se occorre garantire opportunità di accesso e possesso concreto di strumenti adeguati con una mediazione a livello educativo, è anche importante adottare un approccio basato sui diritti, ovvero pensare al bambino come soggetto che ha tante capacità. «Dobbiamo poter contare su professionisti dell’educazione che considerino il bambino come una persona alla pari che vuole essere ascoltata e presa sul serio, vuole potersi esprimere con il proprio linguaggio, avere libertà di espressione e libertà di associarsi».
Un contributo particolare all’evento è arrivato da Davide Massaro, docente di Psicologia dello Sviluppo dell’Educazione in Università Cattolica e co-coordinatore del corso di laurea in Media Education, che ha proposto un approfondimento sulle interazioni precoci tra bambini e robot sociali. Questi robot possono essere antropomorfi oppure no, non hanno abilità particolari se non la capacità di imitare l’essere umano provando a intrattenere rapporti a medio o anche brevissimo termine.
«Noi abbiamo provato a fare un lavoro innovativo portando alcuni robot commerciali già pensati per i bambini all’interno dell’asilo nido - ha spiegato Massaro -. Lo studio di tre anni della dottoranda Gisella Rossini ha voluto verificare se questi robot servono a introdurre qualcosa di peculiare nel contesto di apprendimento in particolare dai 18 ai 36 mesi di età. Utilizzando il robot meccanico Pixy e il robot antropomorfo Idol sono emerse alcune categorie con cui analizzare il comportamento dei bambini: il ruolo dell’adulto, l’esperienza senso motoria dei bambini, l’interazione tra bambino e robot con un focus sulle caratteristiche socio-materiali e le expertise dei robot nella relazione, il gioco simbolico e l’imitazione, le dispute e i litigi tra i due soggetti, categoria interessante rispetto alle strategie di cooperazione tra i bambini e al conflitto socio cognitivo».