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Contro i reati servono parola e ascolto

28 dicembre 2021

Contro i reati servono parola e ascolto

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R come Responsabilità, come Riconoscimento, come Riparazione e Riscatto.

La giustizia riparativa - o restorative justice - è una forma di risposta al reato che coinvolge la vittima, il reo e la collettività che, con l’aiuto di un facilitatore, si adoperano nella ricerca di soluzioni agli effetti degli effetti generati dall’illecito, promuovendo la riparazione dell’evento lesivo per rafforzare il senso di sicurezza collettivo.
 
A Brescia un progetto sperimentale di giustizia riparativa è stato avviato dal Comune - in collaborazione con l’Istituto per la Mediazione familiare e sociale, la Cooperativa di Bessimo, la Cooperativa Il Calabrone, l’USSM e l’UEPE - in seguito al verificarsi di una serie di reati commessi in gruppo da minori nei confronti di gruppi di coetanei. L’equipe del Servizio di Psicologia clinica e forense della Cattolica di Brescia ha curato la valutazione dell’intero progetto.

A questo bisogno emergente del territorio, rilevato dal Servizio Sociale per i Minorenni del Tribunale di Brescia in collaborazione con la Procura per i Minorenni, enti ed istituzioni pubblico-private hanno risposto istituendo gruppo di parola per ragazzi co-indagati, in alternativa al sistema sanzionatorio penale. 

«Accanto ad attività di mediazione già offerta da molti anni, sono stati sperimentati per prima volta gruppi di parola guidati da operatori dell’istituto di mediazione familiare e sociale. Percorsi brevi, durante i quali autori e vittime, in spazio protetto, si sono confrontati sull’esperienza vissuta» spiega Giancarlo Tamanza, pedagogista e docente di Psicologia clinica dei legami familiari e sociali in Cattolica.

Il progetto è stato rivolto sia a minori e adulti sottoposti a procedimento penale, sia alle vittime dirette o indirette, mettendo al centro le persone e la cura di quei legami sui cui si fonda il patto sociale.
 
«I risultati più rilevanti mostrano come i gruppi di parola abbiano permesso ai partecipanti di sentirsi riconosciuti come persone, al di là del ruolo di vittima o autore di reato all’interno dell’iter processuale» precisa Tamanza.

Il gruppo di parola si configura come uno strumento che supporta i colpevoli ad affrontare le conseguenze emotive del reato e ad elaborare pensieri che supportino l’accettazione di un sé che ha danneggiato l’Altro, andando oltre la posizione di vittima della società ingiusta (così come spesso i rei si percepiscono e definiscono). Il risultato è l'assunzione di responsabilità dei danni provocati dal comportamento errato.

In particolare «È stata osservata la capacità di ricostruire una narrazione nuova dell’esperienza vissuta, collegando l’azione compiuta agli effetti emotivi prodotti e di attivare un processo di riflessione che rende possibile pensare all’altro in un modo nuovo e meno stereotipato» specifica il prof. Tamanza.

Entrambi i gruppi, quelle delle vittime e quello dei responsabili, sono infatti passati da una posizione difesa, fatta di divagazioni e/o razionalizzazioni, ad una più sicura e pacifica, nella quale si sono riconosciuti corresponsabili di un episodio (il reato), passando da una posizione di rifiuto delle proprie responsabilità ad una apertura nel vedersi non solo come parti passive, bensì anche come soggetti che avrebbero potuto agire in modo differente.

L’esperimento si è dunque dimostrato efficace nel favorire un percorso di rielaborazione e cambiamento delle persone, che è lo scopo autentico perseguito della giustizia non solo “riparativa” ma anche nelle sue forme tradizionali.

Un articolo di

Bianca Martinelli

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