«In un momento caratterizzato da un generale scettiscismo, anche a causa dei conflitti armati in corso, la giustizia riparativa può essere non tanto un metodo alternativo di fare giustizia ma una pratica da perseguire a beneficio della collettività di cui abbiamo bisogno per arginare violenze, aggressività, guerre», ha detto la presidente Comitato Generale Premi Fondazione Internazionale Balzan e docente di Diritto costituzionale all’Università Luigi Bocconi Marta Cartabia, cui va il merito, con la riforma che porta il suo nome, di avere dato alla giustizia riparativa in materia penale una “disciplina organica”. «La Fondazione Balzan quest’anno ha voluto premiare il professor Braithwaite per il coraggio con cui da circa decenni conduce i suoi studi, basati sulla raccolta di storie vere e atti concreti di solidarietà, ciascuno dei quali fa vedere in tutte le sue sfaccettature il potere trasformativo della giustizia riparativa», ha continuato Cartabia, introducendo la lezione insieme a Cristina Messa, presidente della Fondazione Internazionale Balzan “Premio”, e a Gabrio Forti, emerito dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia penale.
Eppure, secondo Braithwaite, i sostenitori della giustizia riparativa devono vincere ogni «timidezza» nell’affermarne tutto il suo potenziale. «Sono state condotte otto meta-analisi che da questo punto di vista presentano effetti statisticamente significativi sulla sua capacità di ridurre crimini e guerre». Dati positivi che non sono stati ancora sufficienti alla piena affermazione della giustizia riparativa, basti pensare a come, anche in molti Paesi democratici, i tassi di carcerazione restano alti. «Per questo motivo, intendo utilizzare i fondi ricevuti dal premio Balzan per continuare le mie ricerche sul campo, favorendo una maggiore diffusione e conoscenza della giustizia riparativa. Ma anche finanziando borse di studio per giovani provenienti dall’Africa, di sicuro tra i continenti al mondo devastato da terribili guerre».
Ancora una volta sono le storie della vita reale che ci vengono incontro per cogliere il valore di una pratica basata sulla mediazione, sull’incontro, sul confronto, anche tra vittima e colpevole, tra chi subisce un torto e chi lo compie. Come la mobilitazione delle nonne aborigene australiane, conosciute con il nome di “G-Mars”, che difendono con la forza del dialogo il diritto delle loro figlie divenute madri a non essere discriminate nell’esercizio della responsabilità genitoriale sulla scorta di giudizi sulle capacità genitoriali dominati da una visione “bianca” e occidentale degli stili educativi e di accudimento. «Dobbiamo imparare dal potere di queste nonne che per anni hanno percorso la via del dialogo, applicando ovunque la loro lezione», ha detto Braithwaite. Anche le situazioni conflittuali più difficili possono trovare semi di speranza nella parola e nell’ascolto dell’altro: non è irenismo. La giustizia riparativa può dare i suoi frutti nei processi di pace: le evidenze empiriche dell’imponente progetto di ricerca intitolato “Peacebuilding Compared”, che il professor Braithwaite sta realizzando con l’intento di seguire tutti i principali conflitti armati del mondo fino al 2030, sono chiare. Esse mostrano, per esempio, la necessità di un lavoro capillare, sociale, interpersonale, dal basso, di costruzione e ricostruzione di un tessuto vitale, onde evitare che, specialmente nei Paesi caratterizzati da forti instabilità e conflitti armati, le popolazioni soffrano, oltre che dei danni diretti di tali situazioni, anche degli effetti di promesse non mantenute (l’indipendenza, i diritti fondamentali, l’uguaglianza, la dignità umana...). Promesse mancate che offrono il destro a narrazioni polarizzate che, se reiterate nel tempo, facilmente accendono la miccia di nuove conflittualità o addirittura guerre. Perché, ha ricordato lo studioso australiano, menzionando il caso concreto del conflitto russo-ucraino, «minacciare la guerra nucleare non farà necessariamente vincere contro un popolo impegnato a difendere a tutti i costi la propria libertà».
Tuttavia, per la giustizia riparativa la strada da percorrere resta ancora lunga e deve intrecciarsi a modelli di regolazione essi stessi innovativi. Infatti, l’osservanza volontaria della legge non si ottiene con la deterrenza. Serve un mix normativo fatto di sanzioni e di politiche dialogiche, un mix che il professor Braithwaite chiama «responsive regulation»: è qui che si giocano gli spiragli di una innovazione giuridica ancora largamente da esplorare.
Alla lezione di Braithwaite è seguita una discussione sui temi della lecture, cui hanno preso parte, oltre a Marta Cartabia, alcuni tra i principali studiosi in Italia di giustizia riparativa, come Ivo Aertsen, emerito di Criminologia al Leuven Institute of Criminology, KU-Leuven, Belgium, Adolfo Ceretti, docente di Crimonologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Gian Luigi Gatta, docente di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano, e Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale all’Università Cattolica del Sacro Cuore.