Sono passati pochi giorni dalla morte di Henry Kissinger, nato Heinz Alfred Kissinger nel 1923 nella Germania della Repubblica di Weimar e morto centenario il 29 novembre 2023, in una piccola cittadina del Connecticut degli Stati Uniti. Uno studioso e uno statista ancora molto attivo nelle ultime settimane di vita, a dispetto della veneranda età; una figura che, per il servizio prestato alla sua seconda patria e la costante presenza nel dibattito pubblico nazionale e internazionale, negli ultimi tempi era trattata con il riguardo che si porta ai saggi e ai maestri, sebbene la cifra del suo insegnamento - il realismo politico (teoria delle relazioni internazionali che conferisce alla componente pragmatica del calcolo costi e benefici derivanti dal perseguimento degli interessi di stato una indiscussa preminenza rispetto alla componente ideologica della difesa di una visione del mondo o di un nucleo di valori distintivi e non negoziabili) - fosse sotto accusa da lungo tempo e le sue idee sulla guerra in Ucraina continuassero a dividere l’opinione pubblica.
Come prevedibile, la sua morte ha riacceso i riflettori sull’intera carriera di studioso, statista, consulente di Kennedy e Johnson, consigliere nazionale di Nixon e poi Segretario di Stato degli Stati Uniti sotto le presidenze di Nixon e Ford (1973-1977); e poi, dopo il ritiro a vita privata, scrittore, conferenziere e consigliere di diverse missioni internazionali. Quel che sta emergendo, come prevedibile data la già nota letteratura in argomento, è l’immagine di una figura estremamente prismatica e controversa, sia come teorico, sia come attore politico, protagonista di un percorso fatto di luci e ombre, numerose leggende e un buon bagaglio si segreti che ha portato con sé.
Da sempre, sul capo dell’ex Segretario di Stato pende il giudizio di merito sull’impronta realista che riuscì a conferire alla politica estera statunitense degli anni ’70. Fin dagli anni ’60, c’è in realtà chi sostiene che Kissinger non fosse poi un realista puro, e nota infatti come, nel corso della sua esistenza non abbia mai condannato apertamente l’interventismo globale, la costruzione di nazioni e il cambiamento di regimi, così come la promozione della democrazia operata fra il 1989 e il 2010. Inoltre, con riferimento al pensiero e all’azione degli anni ’60 e ’70, si è anche ipotizzato che la vera cifra del realismo kissingeriano sia consistita più nella grand narrative costruita per ottenere il consenso nazionale al processo di distensione, piuttosto che in una effettiva capacità di valutare oggettivamente costi e benefici dell’azione statunitense nelle diverse propaggini globali della Guerra Fredda – con particolare riferimento al controverso prolungamento dell’impegno militare in Vietnam dopo il 1968 (per una ricostruzione del dibattito accademico e della grand narrative della détente rimando a M. Del Pero, The Eccentric Realist : Henry Kissinger and the Shaping of American Foreign Policy, Ithaca and London, Cornell University Press, 2010, pp. 1-11; 77-109; 145-152).
Nel corso del tempo, e specialmente a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, le critiche alle strategie attuate da Kissinger hanno coinciso con il montare di un’aperta contestazione alle teorie realiste, sia dal versante neoconservatore sia dal versante liberal. L’approccio realista alle relazioni internazionali è stato dunque messo sotto accusa tanto quanto l’internazionalismo wilsoniano o l’interventismo liberale, in favore di strategie più bilanciate, già auspicate da Madeleine Albright nel 2003, quando l’ex Segretario di Stato confessò la speranza non dover più concepire le relazioni internazionali come un dibattito fra idealisti wilsoniani e realisti geopolitici (Madeleine Albright with Bill Woodward, Madame Secretary: A Memoir, New York, Miramax Books, 2003, p. 505.).
Da questo punto di vista, Henry Kissinger è stato principalmente accusato di aver promosso e giustificato una politica estera scevra di scrupoli morali e preoccupazioni di tipo umanitario; del resto, l’ossessione per l’equilibrio di potenza, l’ordine e la stabilità come obiettivo supremo e la credibilità degli Stati Uniti, lo portò a considerare del tutto accettabile la negoziazione con regimi non democratici o comunque distanti dalla concezione dello stato di diritto. Il tema della relazione con le autocrazie è di fatto una questione estremamente delicata e ritornata più che mail attuale negli ultimi tempi, di fronte alla crisi dell’ordine mondiale a guida americana e all’ascesa di competitors che fondano il proprio design istituzionale su regole del gioco diverse rispetto a quelle adottate dalle democrazie occidentali.
Non può dunque stupire che Kissinger sia stato costantemente presente nel dibattito mediatico sulla guerra in Ucraina o sulla postura statunitense nei confronti della Cina, fino addirittura ad essere ricevuto da Xi Jinping il 20 luglio scorso, una visita dall’alto valore simbolico in un’ottica di ripresa del dialogo Cina-Stati Uniti. Proprio il viaggio in Cina e le parole spese da Xi nei confronti del “vecchio amico” Kissinger (“Il popolo cinese si ricorderà sempre di te”) ricordano però gli importanti lasciti dello statista centenario sul fronte delle relazioni diplomatiche del Novecento, fra cui, appunto, il merito di aver avviato le comunicazioni diplomatiche fra la Repubblica Popolare Cinese all’inizio degli anni ’70, nonché di aver negoziato, nello stesso periodo, sia i trattati di limitazione strategica degli armamenti nucleari fra Stati Uniti e URSS sia gli accordi che conclusero la guerra dello Yom Kippur fra Stati Arabi e Israele.